Cultura

Alberi fra le rovine, ipnotiche presenze

Alberi fra le rovine, ipnotiche presenzeGiuseppe Penone alle Terme di Caracalla – Foto di Fabio Caricchia

Mostre Alle Terme di Caracalla l'intervento dell'artista Giuseppe Penone nella «natatio»: l'installazione si può visitare da oggi e fino al 30 ottobre

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 7 giugno 2022

Il sambuco è un piccolo albero che sparge i suoi frutti ovunque: per questo è inviso ai coltivatori perché attira gli uccelli che becchettano i semi, sconvolgendo l’ordine delle loro terre. A Giuseppe Penone però piace, «le sue foglie ’sporcano’, ma io le ho usate per fare dei frottage», stimolando così quel sambuco a trascrivere una botanica onirica con le sue fronde boschive impreviste. Gli alberi, lui li ama tutti. Non ha una preferenza di specie, li considera meravigliose creature fluide, anche se nelle sue monumentali sculture somigliano più a dei personaggi fossilizzati, revenant di altri mondi che non ci è dato di sondare con la logica, meglio avere accesso con la poesia. «Sono forme viventi straordinarie perché memorizzano nella struttura la loro stessa storia, trovo che questo sia qualcosa di fantastico».

Giuseppe Penone

ALLE TERME DI CARACALLA, l’artista piemontese (è nato a Garessio nel 1947) ha portato quattro dei suoi tronchi fusi in vari metalli (soprattutto bronzo) che mimano gli accidenti della corteccia perché mai vengono resi materia patinata, accompagnandoli a gigantesche pietre di fiume, tramutando la natatio – la piscina olimpionica un tempo incorniciata da un ambiente imponente, 50 metri per 22 e un’altezza di 20 – in un paesaggio lunare, fra piccoli cumuli e crateri, radici che sfidano la forza di gravità e cercano il cielo e le nuvole al posto di umidi affondi. Racconta Penone che la scelta delle opere è stata dettata dalla grandezza del contesto, non poteva essere diversamente. Solo quei particolari alberi, di quelle esatte dimensioni, appartenenti a epoche differenti di lavorazione, erano in grado di dialogare con le rovine intorno, «innestando» l’elemento di natura su quello culturale, una simbiosi magnetica che caratterizza da sempre ogni traccia di civiltà passate.
Idee di pietra. Giuseppe Penone a Caracalla è un intervento promosso dalla Soprintendenza speciale di Roma diretta da Daniela Porro, prodotto da Electa e curato da Francesco Stocchi, che aprirà oggi al pubblico (e sarà visitabile fino al 30 ottobre). La mostra sarà corredata anche da un libro Electa che riunisce i testi dell’autore, quegli appunti – dice Stocchi – che fin dal ’67 hanno accompagnato la sua produzione creativa. «Un vero e proprio intimo trattato bio-botanico», che va in continuità con il suo lavoro», esprimendo passo dopo passo «un lirismo panteistico vicino allo stordimento: si entra dentro una sorta di prosa poetica per addizioni, per accrescimento come gli anelli vegetali»,
Non è la prima volta che l’arte contemporanea fa la sua incursione fra le titaniche rovine romane (in realtà ha una lunga biografia lì cristallizzata: era già nel dna del complesso quando gli imperatori Severi raccoglievano opere e statue da ogni parte del pianeta per adornare gli spazi, fino alla spoliazione avvenuta con i Farnese e la dispersione della collezione in musei, edifici, luoghi pubblici, come spiega la soprintendente Porro).

AD INAUGURARE il connubio magico nel XXI secolo, sulla scia di quel desiderio di bellezza antico, fu Michelangelo Pistoletto nel 2012 donando il Terzo Paradiso, poi venne il tempo della sua Mela reintegrata, quello di Antonio Biasucci nei sotterranei delle Terme, infine l’affacciarsi di Mauro Staccioli, Alvin Curran e Fabrizio Plessi.
La pandemia ha imposto due anni di silenzio e nessun «incontro» tra memoria e invenzione del presente, ma in questo torrido esordio di giugno si ritorna a camminare in un luogo che sprigiona sinergie, facendo lo slalom in mezzo ai tronchi possenti di Penone. Senza dimenticare che proprio lì, ai bordi della piscina, i romani giocavano con le biglie, come testimonia la tabula lusoria, visibile ancora su uno degli scalini originali. Era un luogo del tempo liberato, della cura di sé e delle amicizie. Anche l’artista, per descrivere la sua installazione archeologica ricorre alla parola «divertimento»: quella gioia del fare arte che non si sottomette a nessuna produzione funzionale, ma spesso lascia riaffiorare i ricordi mai svaniti di un’infanzia passata all’ombra rigenerante dei boschi.

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