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Alan Wake II, eclettico disperante

Alan Wake II, eclettico disperante

Games Da esperire con la notte, nella notte, di notte anche quando fuori è giorno come un inno prolungato e indemoniato di un Novalis post moderno

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 9 dicembre 2023

Prima di tutto giochiamo per morire, nel corpo nudo e bagnato di una persona vomitata da acque lacustri, un uomo che si muove affannato tra le ombre del bosco, intuendo ed inducendoci ad intuire tramite il suo sguardo confuso, prima che il pericolo sia davvero manifesto, che ci deve essere qualcuno vicino a scrutarlo -a scrutarci- minaccioso, celato nella tenebra. Così mentre arranchiamo al buio ci guardiamo intorno con gli occhi dell’enfia figura, ma non c’è ancora nessuno e così, come in quella canzone degli Iron Maiden, evitiamo di farlo ancora proseguendo invece verso una fine presunta anche se certa, consapevoli che se fissiamo indietro verso le orme umide che abbiamo lasciato, questa volta ci sarà certamente qualcosa. «Fear of the Dark, Fear of the Dark, I’ve a constant fear that something’s always near…»

Dura poco questo supplizio, l’obbligo al sacrificio impostoci subito da Alan Wake II, la nuova opera di Remedy per Playstation, Xbox e PC distribuita (purtroppo) solo in digitale. C’è l’incubo di ogni giocatore di videogame, una morte irrimediabile oltre le potenzialità salvifiche di quel «continua» che c’è dopo il Game Over, un preludio doloroso e strano che serve ad introdurre una dei due protagonisti del gioco, ovvero l’agente federale Saga Anderson che indagherà proprio sul «nostro» omicidio; ci vuole davvero poco per identificarsi in questa donna straordinaria, così come diventare lo scrittore che da il titolo al gioco, le cui oscure gesta si alternano per tutto lo svolgimento a quelle dell’investigatrice; un passaggio breve ed immediato forse proprio per quel preludio che ci ha posto di fronte ad una transizione tanto violenta e drastica. Alan Wake II è un gioco sulle transizioni: corpi, spazi, tempi, menti, luci, oscurità, stili, scene, colori, generi, musiche, trame. Oltre a mischiare le immagini elettroniche del videogioco a segmenti con attori e scenari «veri», creando una visione chimerica e sconcertante, Alan Wake II trascorre attraverso momenti travolgenti che sono musical, show televisivo, cinema sperimentale, teatro.

Malgrado Alan Wake II sia una «lettera d’amore» (vera, non come quella tante volte citata negli scritti e nei commenti a proposito di Hogwarts Legacy e i fan di Harry Potter), una dichiarazione di passione verso cinema e letteratura horror, surreale o fantastica giungendo fino al limite della citazione figurativa o letterale, si tratta comunque di un videogame che mantiene l’originalità, che costruisce una sua mitologia attraverso le opere precedenti di Remedy e del suo autore/regista/scrittore/attore Sam Lake, non solo quindi il primo episodio del gioco in questione ma i due Max Payne, Quantum Break e Control che transitano mutando e contaminandosi su un tappeto di ricordi estrapolati dalle visioni di Lynch, Carpenter, King, Cronenberg.

Sebbene si possa inserire nel corso fluviale dei «survival horror» in terza persona, Alan Wake II ci fa andare alla deriva verso altre modalità di gioco, come quella dell’indagine, proponendoci un riflessivo metodo di analisi delle prove raccolte condotta da Saga in un luogo della sua coscienza di investigatrice o facendoci manipolare lo spazio attraverso le intuizioni e l’ispirazione da scrittore di Alan. Tuttavia anche i segmenti di esplorazione e azione che parrebbero più convenzionali risultano sempre nuovi, adeguandosi ad una ritimica della sorpresa e del mistero composta con un’arte per lo più somma, tanto che risulta impressionante come tra tanta azione Alan Wake II possa essere anche lento, cerebrale e contemplativo, raramente persino comico.

Eccezionale per profondità e possibilità diegetiche risulta l’utilizzo dei suoni e della musica, soprattutto delle innumerevoli canzoni che intervengono durante il gioco come commento, racconto, introspezione, motore ludico, così che talvolta Alan Wake II si percepisce quasi come se fosse una grandiosa opera rock.
Non inferiori ai panorami sonori, per la potenza della loro espressione, sono quelli offerti allo sguardo: selve oscure tra Blair Witch Project e Goya, villaggi lacustri cadenti o fiorenti ma sempre inquietanti, Luna Park caratteristici e sinistri dove il tema è quello assurdo del caffè declinato in forme e intrattenimenti, case di cura costruite da rockettari nord europei in pensione, sale cinematografiche dove si proiettano rarità maledette per cinefili, tunnel della metropolitana labirintici e asfissianti, le strade di una New York allucinata, un albergo infestato da ricordi e delirio.

Alan Wake II è un’opera eclettica, disperante e solo talvolta consolante non per chissà quale artificio narrativo o ludico ma per la sua notturna e lucente bellezza di viaggio verso un cuore di tenebre che brilla proprio per le sue qualità estetiche, etiche e poetiche; un gioco che non ragiona sul potere dell’immaginazione e della fantasia quanto sulla responsabilità che questo comporta, l’onere di un autore verso il mondo e le persone che lo amano. Lo scrittore Alan Wake non è un mostro come il Sutter Cane di In The Mouth of Madness di John Carpenter, forse l’opera che più ha ispirato questo secondo episodio, ma è un contenitore di bene e male insieme, così mischiati da essere quasi indistinguibili, un personaggio tragico e disperato che sembra essere poco più o molto di più di un’invenzione di se stesso, laddove Saga è tangibile, viva, vera anche quando la sua storia personale è alterata, mostruosamente inquinata, dalle speculazioni letterarie e dall’egoismo del tormentato autore.

Questo secondo Alan Wake, vertice creativo e artistico di Remedy, è da esperire con la notte, nella notte, di notte anche quando fuori è giorno come un inno prolungato e indemoniato di un Novalis post moderno, ascoltandolo con un volume degno di un concerto heavy metal e lasciare così il controller inerte per qualche minuto di non attività ludica e muoversi quindi al ritmo esaltante o dolente delle sue canzoni in una danza che diviene una forma superiore di interattività.

Mamma e agente Fbi: un commento a margine di Alan Wake II di Giulia Martino

C’è chi definisce la nostra epoca usando il termine «datification», espressione che evidenzia l’attitudine dei dati più svariati a essere trasformati in valore economico nella nostra società contemporanea. Nel mondo videoludico, invece, si parla di «dadification». Secondo Neil Druckmann, scrittore e direttore creativo di The Last of Us, l’essere diventato padre durante la produzione del primo videogioco della serie avrebbe garantito una maggiore forza e sincerità alla sua scrittura della storia. I padri non sono soltanto fuori dallo schermo, ma anche dentro: non si contano le rappresentazioni videoludiche di rapporti padre-figlio spesso conflittuali e burrascosi, ma destinati a crescita e maturazione, come nel caso della nuova trilogia di God of War, o dei legami non biologici (ma non per questo meno forti) visti nel sopra citato The Last of Us e in The Walking Dead, o di Heavy Rain. La lista potrebbe continuare a lungo. Sorge spontanea una domanda: dove sono le madri? Solitamente a casa, pronte a rigenerare la salute del personaggio principale su richiesta (Pokémon, Earthbound); in alcuni casi, temibili avversarie da sconfiggere, con storie roboanti finalizzate esclusivamente a esaltare le abilità del giocatore che le ucciderà (The Boss in Metal Gear Solid 3: Snake Eater); oppure escamotage narrativi per dare il via all’avventura degli eroi (la morte di Fey in God of War).

Negli ultimi anni, però, qualcosa si sta muovendo, e le frange più conservatrici del mondo dei gamer non mancano mai ai ricorsivi appelli di levata di scudi che si scatenano in questi casi a partire da piattaforme come Reddit e 4chan. A farne le spese è, in questa occasione, l’ultima opera di Remedy Entertainment: Alan Wake 2 introduce una co-protagonista nera accanto allo scrittore scomparso Alan Wake. Il suo nome è Saga Anderson, è un’agente dell’FBI impegnata a fare il suo lavoro investigando su una serie di morti misteriose e sì, è anche madre di una bambina. La maternità di Anderson viene utilizzata magistralmente dal team finlandese nell’arco del gioco – e, in particolare, nel riuscitissimo finale – per riflettere sui sensi di colpa delle madri lavoratrici in una società in cui il lavoro di cura è tradizionalmente affidato alle donne della famiglia. Tutto questo non è stato apprezzato dallo YouTuber HeelvsBabyFace, che nel suo video «Alan Woke 2: Inclusion & Diversity Boogaloo (Sweet Baby Inc.)!!» ha puntato il dito contro ciò che – a suo dire – «sta distruggendo compagnie come Remedy Entertainment dall’interno». Si tratta dello studio canadese di consulenza Sweet Baby Inc., impegnato a fornire servizi a compagnie anche di grande spicco nell’industria videoludica (tra i clienti annovera Square Enix, Electronic Arts, Ubisoft e, appunto, anche Remedy Entertainment) per fornire pareri e direzioni sul piano narrativo, promuovendo la creazione di storie diversificate e mosse da intenti di inclusione. Su Reddit, l’utente SnooWords9178 scrive: «mi sembra che il sito [di Sweet Baby Inc., N.d.A.] sia un buon posto per capire quali videogiochi non giocare.

La prossima volta che proverò interesse verso un determinato titolo andrò a controllare se sono coinvolti, e in tal caso, non lo comprerò assolutamente». Dismal-Range 1678, utente di Reddit, così descrive la CEO e co-fondatrice di Sweet Baby Inc., Kim Belair: «Non le piacciono i videogiochi e non è qualificata per questo lavoro, ma i soldi la inseguono ugualmente. Il risultato è che è diventata ricca ottenendo la possibilità di distruggere il nostro hobby con la sua perversa visione del mondo». In altre parole, l’inclusione di una donna nera (perdipiù madre) come co-protagonista di un videogioco molto in vista nell’industria è considerata come un atto «politico», una prova del fatto che qualcuno, là fuori, vuole distruggere il mondo videoludico dall’interno. E se questi meccanismi ricordano a qualcuno il modus operandi dell’alt-right, è solo perché le sovrapposizioni sono troppe per poter essere ignorate.

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