A un anno dalla morte di Alain Touraine, c’è un aspetto dell’attività del sociologo francese che può essere ricordato partendo dal suo libro Vita e morte del Cile popolare (Einaudi 1974, nella traduzione di Gabriella Lapasini). Il 21 luglio 1973 Alain Touraine arriva infatti a Santiago del Cile. Da quel momento, per intere settimane e poi per mesi, terrà il suo «diario sociologico» in cui saprà mescolare le reazioni che seguirono i tragici avvenimenti dell’11 settembre «con l’analisi non sistematica ma continuata delle classi sociali e dello Stato». Lascerà definitivamente il Cile il 24 settembre, nello stesso giorno in cui il Pablo Neruda, che aveva combattuto per quella terra «petalo di mare e di neve», era stato appena sepolto da «mani coraggiose». Due anni prima, Touraine aveva visitato un Cile diverso. Era il settembre del ’71 e il Paese era reduce dalle campagne di nazionalizzazione delle industrie americane di rame, carbone e acciaio, quelle industrie che in nome di una politica economica avente sede a Chicago, avrebbero poi contribuito alla fine del sogno socialista del medico Allende. Eppure, già nel luglio ’73, tutto sembra cambiato. Tutto ha cominciato a subire l’influenza di una feroce politica americana che non tollera quel mondo veramente democratico. E un primo tentativo di golpe o, meglio, come venne poi chiamato, un pronuciamiento, era già partito a fine giugno dal comandante Souper. Certo, ancora non si era arrivati a bombardare La Moneda ma era ormai evidente che un vento militare avesse orrendamente cominciato a ingannare il paese. Erano ancora i tempi dei golpe di polvere e ferro, così lontani dai disastri economici che oggi, in modo diverso, sanciscono crudelmente la fine delle esperienze democrazie. Eppure, quando Souper attacca, risponde un «Cile popolare» che corre ad occupare uffici e fabbriche. «Oggi» scriverà Touraine, «la corrente portante della vita politica cilena non è più il nazionalismo ma il potere popolare». Il paese è protetto da una mobilitazione «che si appoggia sui campamentos» che insieme alla Jap (le Giunte del controllo dei prezzi) «garantiscono la distribuzione di beni di prima necessità». Le forze popolari hanno acquisito «una grande autonomia d’azione» e i movimenti dell’ultrasinistra (il Fronte dei lavoratori rivoluzionari e il Movimento dei contadini rivoluzionari) sanciscono una rottura con il governo centrale, assumendo «un ruolo di sempre maggiore importanza».

Si chiede Touraine se sia allora in questo «il preannuncio di un potere rivoluzionario?». Se nella frattura della sinistra verrà provocato «l’intervento dell’esercito sotto forma di colpo di stato» o se, invece, dovrà avvenire sotto forma di un intervento «legalista». Quello che è certo è che dopo il pronunciamiento tutti si aspettano un Colpo di stato. Tutto è rimandato. Nel frattempo le code per il pane si allungano e l’otto agosto ’73 vengono annunciati i nuovi vertici delle forze armate. «La Democrazia Cristiana reclama un governo militare», «lo Stato si interpone tra le classi in lotta» mentre la destra porta in corteo i minatori di El Teniente. Si arriva a settembre che gli attentati dilagano e i movimenti socialisti si sono in ogni modo frantumati. Il blocco dei trasporti che da mesi contrassegna la crisi con il governo diventa soffocante. I generali si fanno «arbitri della situazione» mentre i tribunali appoggiano le scelte dei partiti di destra. Quello che accade in Cile diviene allora, più che un momento inaspettato, un processo di conseguenze. La resistenza popolare che aveva reagito alle azioni della destra cilena è adesso l’immagine di uno squilibrio di forze. Fabbrica e società sono tra di loro allontanate a tal punto che quella rivoluzione intesa un tempo come «movimento popolare» si è ritrovata adesso «piena di forza eppure senza potere». Come ogni esperienza popolare non sostenuta, anche quella cilena, di fronte alla barbarie di un paese potente, ha ceduto passo a passo il proprio destino. Non è quindi un momento, una data, quanto piuttosto un processo di minacce e di istanti quello che il Cile popolare fu costretto a subire.

Touraine analizza le ragioni dei militari, dei democratici cristiani, vede delle responsabilità nei movimenti sindacali di estrema sinistra e, spesso, sbaglia. Eppure, è proprio in questo senso che le riflessioni annotate dal sociologo in quei giorni ci appaiono ancora oggi interessanti. In primo luogo per essere state smentite dalla storia, per essere state anche analisi errate. Sarà lo stesso autore, a distanza di mesi, a riconoscere i propri errori annotandoli a margine del diario che comunque pubblicherà. Ed ecco un aspetto interessante dell’opera di Touraine. Bisogna infatti riconoscere all’autore l’intelligenza di aver scelto di lasciare invariati quei testi che a pochi giorni dall’11 settembre apparvero come semplificazioni di quel fenomeno complesso che fu il golpe del ’73. Oggi, a cinquant’anni di distanza dai tragici eventi che decretarono non soltanto la fine di un’esperienza democratica quanto, assai più colpevolmente, la sperimentazione di scellerate politiche liberiste, crediamo sia utile tornare a rileggere i diari sul Cile che Alain Touraine seppe scrivere in quegli anni. Non tanto per intenderne il valore profetico quanto, semmai, per compararne gli errori, per vedere in quel mondo sbagliato molte immagini del mondo di oggi. Sembra assurdo che un libro tanto importante possa essere oggi fuori catalogo. Nel primo anniversario della morte di Alain Touraine l’augurio è che qualche editore voglia riportarlo all’attenzione del pubblico, evidenziandone errori e avanzando nuove interpretazioni.