Visioni

Alain Platel e il risveglio delle coscienze

Alain Platel e il risveglio delle coscienzescene da Nicht Schlafen – foto di Chris Van

A teatro «Nicht Schlafen», la nuova creazione del coreografo belga dopo Torino sarà l’8 e il 9 ottobre a Reggio Emilia. Una danza estrema, scontro feroce di corpi - su musiche di Mahler - un ammonimento all'umanità dolente

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 1 ottobre 2016

La nuova creazione di Alain Platel arrivata a Torinodanza nei giorni scorsi, potrebbe segnare un importante punto fermo nel lavoro dell’artista belga. Contiene infatti tutti gli elementi fondanti della sua spettacolarità, dalla centralità estrema dei corpi all’uso intrecciato della danza e del teatro, e poi ancora lo sguardo privilegiato a un mondo di ultimi, fino alla «marginalità» degli abiti, strappati e stracciati fino a figurare come discarica, e soprattutto (forse addirittura punto di partenza e guida medianica) la dedica e la fedeltà ad un unico compositore, in questo caso Gustav Mahler, dopo aver privilegiato per lungo tempo Bach, Monteverdi, i contemporanei, e il sound del Congo.

06_nicht schlafen_production photo 01 (c) Chris Van der Burght (1)

Dunque ci sono tutti gli elementi che Platel hanno fatto grande, forse il più grande oggi in Europa, da quando vent’anni fa spiazzò ogni spettatore e bon ton con la sua Bernadetje. Ma ora questo imperativo Nicht Schlafen (ovvero «non dormire», che dopo le repliche alle torinesi Fonderie Limone sarà nel prossimo fine settimana al festival di Reggio Emilia) ha forma e contenuti e grida davvero più inquietanti del solito. A cominciare dalla scenografia, che grava e ansima, assieme ai corpi dei performers, attorno al gruppo «scultoreo» dei tre grandi cavalli morti opera di Berlinde de Bruyckere, che evoca l’installazione della stessa artista pochi anni fa alla Punta della Dogana per una Biennale Arti Visive.

È quella massa contorta e dolorante, mortuaria e forse salvifica, a sovrastare e condizionare lo scontro, che si sviluppa per cento minuti esatti, senza che mai per un attimo cali la tensione, mentre il respiro che dai corpi degli atletici danzatori emana, grida, sussulta, piange, e improvvisamente a tratti sorride ricomponendosi in una umana Pietà. Sono nove personaggi, otto uomini e una donna, tutti sommariamente vestiti, a giocare quel torneo contro il silenzio e la solitudine, malmenandosi fin quasi a sbranarsi, ma capaci ciclicamente di riconquistare e mostrare la tenerezza che nell’umano risiede. Capaci di suturare la sconfitta e il dolore, come di vincere la ferita e il sangue, e perfino la morte che su di loro sembra aleggiare, muta per quanto crudele, «non detta« in quella specie di sospensione atroce che lo spettatore vorrebbe fosse solo un videogioco. Mentre invece quei pugni, quegli strattoni, come quelle pose cristologiche che si dinamizzano in eterne rincorse, sono il volto, ben concreto e vitale, di quello che ogni momento abbiamo tutti davanti agli occhi, fuori del teatro. Proprio il teatro con tutta la sua fenomenologia, si trasforma semmai in una sorta di camera iperbarica, o in uno scanner che riesce a far trasparire ed evidenziare quanto normalmente riusciamo a velare davanti ai nostri occhi.

1visuno13_nicht schlafen_production photo 01 (c) Chris Van der Burght

Non per sola codardia o opportunismo, ma perché violenza, ingiustizia, prevaricazione e rovesciamento di valori sono così diffusi attorno a noi da rientrare quasi nella «normalità», esattamente come qualche barlume di piacere, o affetto, o anche solo comprensione, siamo portati a concederci, quasi una pausa per riprendere fiato trai gong implacabili di quel match senza fine.Questo che a raccontarsi può rasentare la banalità, nello spettacolo di Platel si fa bombardamento fecondo e vitale, dei sensi e della coscienza di ogni spettatore. Ma tutto questo baluginare di cazzotti e minacce, di bave alla bocca e di carni strappate (e perfino di sodomie al fantoccio equino di cartapesta), vive dentro una melodia avvolgente e perfino ipnotica, che sorprendentemente viene da Gustav Mahler. La proposta di lavorare sul compositore austriaco del primo novecento era sta caldeggiata a Platel da Gerard Mortier, sommo organizzatore musicale degli ultimi decenni tra Bruxelles, Salisburgo e la Ruhr, scomparso da pochi anni. Dopo l’iniziale rifiuto, il regista, pur senza nutrire per quella musica particolare trasporto, ha deciso di provare per correttezza una full immersion nelle pagine mahleriane. E a sedurlo è stata proprio la loro complessa contradditorietà, originata dal fatto di vivere il compositore in una belle epoque scanzonata che sempre più sentiva addensarsi incombente l’onda nera che dalla guerra mondiale avrebbe trascinato il mondo ai totalitarismi e all’orrore dell’olocausto.

I frammenti di Mahler orchestrano quindi lo spettacolo e il suo ammonimento a Non dormire, prendendo corpo nella fisicità sfrenata dei danzatori. Anzi, rispetto ad altre occasioni, ci sono diversi momenti di «balletto», sospensioni quasi ironiche che gridano anche l’inadeguatezza della pura tecnica artistica di fronte a tanta violenza diffusa. Tutto detto e fatto con grande misura, senza suonare retorico né didascalico, ma lasciato all’intelligenza e alla sensibilità di ogni spettatore. In questo senso, si può forse dire fondatamente che Alain Platel è l’unico vero erede del «segreto» Bausch. Usare teatro e danza, insieme con musica e immagini, per esprimere quello che a parole non si può esplicitare, benché dentro di noi: qualcosa di ineffabile perché sgradevole o torbido. In ogni caso inconfessabile, da nessuna creatura umana.

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