Dopo Il grande amico, titolo inaugurale della collana mondadoriana della «Medusa», proposto nella traduzione di Enrico Piceni nel 1933, le trasposizioni italiane del romanzo di Alain-Fournier si sono moltiplicate. Per il rilancio della stessa collana, avvenuto negli anni ottanta, una nuova versione fu affidata ad Anna Banti mentre altre pregevoli traduzioni si sono succedute nel tempo, alcune più aderenti al titolo originale Le grand Meaulnes: da Piero Bianconi (Bur, 1957) a Giuliano Gramigna (Garzanti, 1981), fino ad arrivare alle più recenti, allestite da Yasmina Melaouah per Feltrinelli nel 2013 e da Giovanni Pacchiano per Bompiani nel 2023. È ora la volta di Il grande Meaulnes (pp. XXXVI-276, € 14,00), ben curato per gli Oscar Mondadori da Stefania Ricciardi, artefice di una riduzione fedele ma, al contempo, contrassegnata da stile scorrevole e godibile.

Il libro, anticipato a puntate sulla «Nouvelle Revue Française», uscì presso Émile-Paul Frères nel 1913 ed ebbe un successo inaspettato, tanto da sfiorare la vittoria al Goncourt. Il tema dell’adolescenza, con il suo strascico di poetici ardori e cocenti disillusioni, viene affrontato con una delicatezza d’antan, mai disgiunta da una sottile vena di crudeltà. «Alain-Fournier, così dolce, così tenero, così facilmente coinvolto, aveva allo stesso tempo una sorta di crudeltà verso gli altri esseri». È un’ammissione di Jacques Rivière, amico e cognato (aveva sposato la sorella Isabelle, dedicataria del romanzo), estratta dalla testimonianza più attendibile sulla sua figura, pubblicata quale prefazione ai Miracles, raccolta di testi miscellanei apparsa postuma nel 1924 da Gallimard (Medusa, 2010).

Alain-Fournier voleva riportare le sue considerazioni sulla felicità con la naturalezza con cui si tratteggiano nell’aria le nervature di una foglia e il mare si increspa sotto la sferza del maestrale. In una lettera a Rivière, parlando del personaggio di Meaulnes, precisa: «Ha rinunciato alla felicità. Vive nel mondo come qualcuno che sia sul punto di andarsene». Parole profetiche, visto che l’autore perì al fronte il 22 settembre 1914, ucciso dai boches all’età di ventisette anni e che i suoi resti furono ritrovati nel ’91 in una fossa comune, non lontano da Verdun. Sia il narratore François Seurel sia Augustin Meaulnes (ma in parte anche Frantz) rappresentano le rifrazioni di un alter ego appena dissimulato, fiero di esibire i propri paludamenti arlecchineschi. Paradigmatica è la vicenda di Yvonne de Galais che, fin dal patronimico, richiama la figura di Yvonne de Quiévrecourt, salutata alla stregua di un’apparizione soprannaturale nell’estenuato grigiore dei lungosenna. Tale incontro è ricordato nell’estratto del carteggio con Rivière proposto in appendice (quando si deciderà qualche editore lungimirante a farlo tradurre integralmente?), tra cui appaiono due lettere inviate alla stessa Yvonne. Significativo è, a tal riguardo, il saggio Le corps de la femme, confluito nei succitati Miracles, in cui Alain-Fournier contrappone alla licenziosità di ascendenza ellenica di Pierre Louÿs, alla meccanicità dell’atto sessuale descritta da Remy de Gourmont in La Physique de l’amour una visione femminile improntata a un «passato misterioso, infantile e cristiano», non esente da quella maternità sacrale che, in tempi di gender studies, può risultare anacronistica, se non velleitaria.

La definizione di «romanzo d’avventura», contestualizzata nel saggio eponimo di Rivière apparso nel 1913 nella «Nouvelle Revue Française» (disponibile in versione italiana presso Pacini), è a più riprese suggerita nelle pagine del romanzo. Un capitolo si intitola L’avventura e il libro si chiude emblematicamente con queste parole, riferite a Meaulnes: «E già lo immaginavo, la notte, avvolgere la figlia in un mantello e partire con lei verso nuove avventure». In una missiva indirizzata a Rivière, l’autore precisa: «Sempre più il mio libro è un romanzo di avventure e di scoperte». Ma le pagine del Meaulnes pullulano letteralmente di riferimenti a tale concetto, filtrato dall’ammirazione per Stevenson, Dickens e Defoe, di cui non a caso cita un passo tratto dal Robinson Crusoe. Thibaudet contestò al libro di avere «forse cento pagine di troppo», giudizio ribadito anche da Gide che rilevava come Le grand Meaulnes presentasse «un disegno un po’ incerto». Thibaudet osservava inoltre come «il castello delle Sablonnières, l’apparizione dei saltimbanchi non sono niente di straordinario, non oltrepassano l’orizzonte di una mappa da scuola elementare». Non si tratta tuttavia di una formula denigratoria, ma di una constatazione tesa a rilevare quanto l’elemento fantastico si dirami entro le coordinate di un’immaginazione fortemente innestata sulla topografia della provincia francese. Sullo sfondo c’è la natura lussureggiante della Sologne, del Berry, paesaggi mozzafiato dove si delineano, come un trompe-l’œil, le rovine di un castello che nulla ha in comune con lo scrigno di nefandezze di Gilles de Rais investigato da Huysmans e Bataille (e si pensi alle innumerevoli suggestioni figurative che vanno dai preraffaelliti a Maurice Denis, da Eugène Carrière a Amédée de La Patellière).

L’avventura di Alain-Fournier ha d’altronde un’accezione atipica, tetragona a qualsiasi canone troppo consolidato: si tratta di un compendio tra rêverie di ascendenza contadina e patrimonio simbolista riconducibile alla lezione di Rimbaud e Laforgue (ma anche Jammes e Maeterlinck con la figura di Mélisande rivisitata da Debussy). Rivière rileva come l’autore, contrapponendosi alla «letteratura più esoterica, più aristocratica» da cui in fondo deriva, comprenda «che le sue fonti di ispirazione sono di ordine popolare». Si trovano echi del romanzo Marie-Claire di Marguerite Audoux, imperniato sul mondo contadino dell’epoca, contaminato con elementi religiosi e scaramantici, regalato a Yvonne de Quiévrecourt (vedi lettera del 23 agosto 1913, acclusa in appendice). «Per esprimere tutto questo io non ho ancora trovato niente di più bello che il linguaggio dei contadini parlato da me», confessa lo scrittore in una missiva del 1906. Un discorso a parte merita il retaggio cattolico di Alain-Fournier, problematico, inquieto, mai rassicurante, atto a conciliare l’intransigente fondo giansenistico con gli slanci impetuosi di Péguy e l’obbedienza alla norma di Claudel.

Nella sua pregnante introduzione la curatrice, oltre a dichiarare la fonte (Le grand Meaulnes suivi de Choix de lettres, de documents et d’esquisses, a cura di Philippe Berthier, edito nel 2020 nella prestigiosa «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard), prende ad esempio due termini essenziali nel plot narrativo come domaine (indissociabile dall’aggettivo mystérieux) e bohémien, entrambi dalla spiccata valenza polisemica. Il «domaine mystérieux», qui riportato con «tenuta misteriosa», è stato reso in passato con «castello misterioso» (Piceni, Melahouah, Pacchiano), «dominio misterioso» (Gramigna), «parco misterioso» (Banti) mentre «bohémien», per il quale si era adottata quasi unanimemente la soluzione di «zingaro», viene dalla Ricciardi tradotto con «vagabondo», più sfumato e pertinente al contesto. Si riporta, a tal proposito, un’intuizione di Gramigna che, rifacendosi alla tecnica anagrammatica o paragrammatica di Saussure, isola dal sintagma «LE domAINE MYSTérieux» il simbolo poetico di Yvonne, «taile myns(c)e» traslitterato in «taille-mince» (vita sottile), ricorrente sia nella narrazione sia nel carteggio con Rivière.

Molto interessanti le osservazioni sulla fortuna del romanzo nel nostro paese: da Antonia Pozzi a Vittorio Sereni (una poesia degli Strumenti umani si intitola «Il grande amico», così come un’antologia postuma della Bur), da Cristina Campo a Giorgio Bassani. Senza dimenticare il Conservatorio di Santa Teresa di Romano Bilenchi e Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise, laddove, secondo Pampaloni, aleggiano «i dolci fantasmi di Alain-Fournier».