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Alain Ehrenberg, imprenditori del sé, un diktat per la psiche

Jean Dubuffet, «Il fraintendimento», 1978Jean Dubuffet, «Il fraintendimento», 1978

Intervista Incontro con Alain Ehrenberg, studioso dei cambiamenti della personalità attraverso la patologia più diffusa dall’era contemporanea: la depressione, cui ha dedicato diversi saggi

Pubblicato 12 giorni faEdizione del 29 settembre 2024

Arretrato dietro il palcoscenico delle relazioni sociali, progressivamente esiliato dal lessico comune, sempre più stregato dalla favola delle neuroscienze, il senso che guida l’agire umano è stato richiamato alla ribalta dall’edizione appena conclusa del Festival della filosofia, che ha scelto come suo vessillo la parola psiche. È in questo contesto che si è svolta, a Modena, l’intervista con Alain Ehrenberg, la cui notorietà è dovuta soprattutto al più bel saggio sulla depressione che sia stato scritto negli ultimi decenni, indagata in quanto contraccolpo psichico del nostro stile di vita contemporaneo, dove l’imperativo proveniente dal mercato del lavoro è superare i propri limiti, farsi artefici del proprio destino, appellarsi alle proprie risorse di adattamento, pena un diffuso senso di inadeguatezza, e di frustrazione.

Da qui, il titolo più celebre dello studioso francese, La fatica di essere se stessi (Einaudi), scritto nel 1998, quando era direttore del gruppo di ricerca «Psychotropes, Politique, Société» a Parigi. Dobbiamo a Ehrenberg l’indagine sul linguaggio che ha reso pubblicamente condivisibile una esperienza privata com’è quella del dolore mentale: già nell’ultimo ventennio del XIX secolo, una serie di vocaboli legati a quella costellazione chiamata nevrastenia, strettamente associata alle inedite opportunità sociali che si andavano diffondendo, era entrato nel discorso comune. Allora, le polarità entro cui si muoveva l’individuo oscillavano fra ciò che era permesso e ciò che era vietato, e la conseguente patologia era dominata dal senso di colpa: da Charcot a Freud a Janet a Ribot, tutti i medici deputati a occuparsi della sofferenza psichica erano diversamente mobilitati sul fronte comune di un disagio che nasceva dalle costrizioni imposte da una qualche istanza superiore, umana o divina. Oggi, invece, la diffusione delle sindromi depressive soffre l’illusione del tutto è possibile, e di conseguenza la responsabilità di avere la vita nelle proprie mani, da cui deriva una epidemica sensazione di insufficienza, di non essere all’altezza dei diktat sociali. Da qui il ricorso a additivi esterni, sotto forma di farmaci, sostanze psicotrope, droghe, ovvero la ricerca di un pieno che si opponga al vuoto depressivo di una coscienza mai sufficientemente satura di riconoscimenti identitari.

Partiamo da qui, ovvero da osservazioni già presenti anche negli altri libri di Ehrenberg, La società del disagio e La meccanica delle passioni (Einaudi 2010, 2019) per aggiornare i caratteri più diffusi e le forme dell’attuale dolore psichico.

Tutti i suoi studi sono finalizzati a indagare la storia della personalità contemporanea, filtrata attraverso una patologia, la depressione, che ha mobilitato, con la sua enorme diffusione, la grande industria della salute mentale. Come descriverebbe gli ultimi cambiamenti che ha osservato, se ne ha individuati di rilevanti, nei legami sociali?

Sto per finire un libro sulla storia della psicopatologia, nel quale mi occupo, come sempre, di prospettive storico-sociali: i temi della depressione e della salute mentale sono ovviamente legati al nostro modo di pensare e di agire nella società, alle nostre idee e ai nostri ideali comunitari. Parto dal XIX secolo, ma il periodo più importante va dal dopoguerra a oggi. Da allora, mi sembra ci siano stati due momenti: negli anni Settanta, con il cambiamento dei costumi, con i movimenti di liberazione, e con la rivoluzione sessuale, l’aspirazione massima era il raggiungimento dell’autonomia personale, ovvero essere liberi di scegliere, in nome della proprietà di sé e della capacità di agire in proprio. Si realizzava così una svolta tutta personale dell’individualismo moderno. Nei due decenni successivi, l’autonomia è diventata invece una condizione comune, non riguardava più solo i valori legati alla scelta, alla autoproprietà, alla indipendenza, ma era il requisito richiesto per l’azione. Da aspirazione diventava norma. Ora siamo in una società in cui l’autonomia individuale è diventata il valore cardinale, soprattutto è diventata normativa. L’epicentro di questa trasformazione è, ovviamente, il mondo del lavoro, che oggi enfatizza la soggettività e tutto ciò che ha a che fare con il comportamento individuale, creando preoccupanti tensioni sociali che si esprimono in relativi problemi di salute mentale.

Benché molto sia cambiato negli ultimi venticinque anni con l’avvento di Internet e ciò che si è portata dietro, direi che siamo ancora in un tipo di società impregnata da questi ideali, dove la domanda che soggiace alla sofferenza psichica non è più cosa mi è permesso fare, come ai tempi della nevrosi freudiana, bensì: sarò in grado di farlo?

Il grande critico letterario Lionel Trilling leggeva nella pratica psicoanalitica una «estrema forma di coraggio tragico di accettazione del destino», che oggi è visibilmente in declino; mentre guadagnano credibilità nel senso comune le neuroscienze cognitive, che cercano nelle reti neuronali dell’individuo l’intelligibilità della sofferenza psichica. Lei ne ha scritto in modo molto critico in «Meccanica delle passioni»…

Negli Stati Uniti la psicoanalisi è praticamente scomparsa, tranne forse negli studi privati di alcune città molto grandi. E in Francia non è più una bandiera culturale, pur essendo ancora molto presente nelle istituzioni che si occupano di salute mentale. Negli ultimi trent’anni circa c’è stata un’esplosione delle pratiche comportamentali e delle neuroscienze cognitive, che lungi dal rivendicare il carattere tragico del dolore psichico, si rivolgono all’antropologia dell’azione, sostenendo che l’individuo è l’arbitro finale del proprio destino e il suo cervello la sede dei meccanismi decisionali.

Fra gli elementi che contesto alle neuroscienze c’è la costruzione di un individuo distaccato dalle sue relazioni: la tribù dei cognitivisti giudica che sia questo il modo migliore per cogliere scientificamente le dinamiche dei nostri comportamenti. «La prospettiva cerebrale non è relazionale» – scrivevo già in Meccanica delle passoni, «ma sostanzialista». In più, c’è una tendenza filosofica che cerca il significato passando dal cervello, come fa Damasio, ma questa è metafisica. Detto ciò, la sociologia ha il compito di descrivere, di districare un insieme di fattori intrecciati e non di chiedersi: è giusto? è sbagliato? Mentre la biologia cerca le correlazioni e le verifica attraverso la sperimentazione, noi non parliamo di cause e effetti, perché i nostri concetti sono relazionali: per esempio, non esiste il concetto di insegnante senza quello di studente. Tutto sta nella relazione.

E questo deriva dal fatto che l’uomo è un animale linguistico…

E che vive in gruppo. Ciò che rende peculiare una società a fronte di un’altra sono le idee condivise, i comuni ideali sociali, le rappresentazioni collettive, in altre parole l’intreccio di idee, valori e norme che permeano i nostri modi di vivere e di agire. Quanto a noi, come ha scritto Erving Goffman – la domanda che ci dobbiamo porre è: «Che cosa sta succedendo qui?» Ovviamente esiste una sociologia critica, come quella di Bourdieu o dei sociologi e filosofi ispirati da Foucault, ma – a mio avviso – è troppo generalista e non riflette ciò che le persone stanno davvero vivendo. In particolare, la questione della sofferenza psichica e delle patologie che ne derivano è stata molto utilizzata per fornire interpretazioni sociologiche degli sviluppi contemporanei in termini catastrofisti. La domanda che mi pongo non è come funziona il potere, bensì come funziona una società informata da relazioni di potere, e quali sono le strategie dei giocatori in campo.

Mi interessa capire le tensioni morali che ne derivano e penso che esse si esprimano nei giochi linguistici che ruotano intorno alla salute mentale. Nel saggio sull’individualismo al quale sto lavorando, in cui confronto la situazione francese e quella americana, sto cercando di far emergere delle singolarità, non di arrivare a generalità di tipo filosofico.

Non crede che dietro il successo delle terapie derivate dalle neuroscienze si nasconda la cancellazione del senso che di volta in volta si trova dietro la sofferenza mentale dei singoli?

Sì, assolutamente: se una tecnica dovesse sostituire l’altra, se le pratiche di tipo psicodinamico dovessero scomparire, credo che ci verrebbe a mancare uno strumento fondamentale per avvicinarci ai problemi degli umani, alle tensioni morali delle nostre società. Tuttavia, questa opposizione nei principi può convivere con una complementarità nelle pratiche, fornendoci due grandi mezzi per sostenere il nostro essere morale in queste società di individualismo di massa, segnato dal culto dell’autonomia, che crea ogni sorta di tensioni psichiche.

A proposito di individualismo, molte pagine del suo libro sulla «Società del disagio» sono dedicate a riassumere e chiarire ciò che aveva scritto Durkheim sulla confusione ricorrente tra individualismo e egoismo…

Sì, infatti, in questione è piuttosto lo spirito comune, derivato dalla sympatheia verso i propri simili. Nel 1898, in un articolo congiunturale titolato «L’individualisme et les intellectuels» Durkheim risponde alla estrema destra che accusava gli intellettuali e tutti i sostenitori di Dreyfus di essere degli individualisti intenzionati a distruggere la società, spiegando come, grazie a una somiglianza fonetica, si faccia confusione tra individuo, che può anche coincidere con l’utilitarismo, e individualismo che è «la glorificazione non dell’io, ma dell’individuo in generale». In qualunque società, sia essa di caste indiane, o fondata sul lignaggio e così via, si dà sempre la questione relativa al posto e al destino dell’individuo nella società; ma solo nella nostra l’individuo è un valore, e da qui la paura di perdere l’interdipendenza sociale e tutto ciò che ne consegue.

Circa trentacinque anni dopo Wittgenstein scriverà, nel «Libro blu e marrone», che una delle grandi fonti di disorientamento filosofico sta nel cercare la sostanza – in questo caso «individuale»– dietro il sostantivo –, in questo caso « individualismo».

Infatti, non esiste una sostanza nell’individuo che possa essere liberata dal tutto, ovvero dalla sua vita sociale. L’individuo è totalmente impregnato di vita sociale, e questo non significa che tutti siano uguali. Ciò che è collettivo non corrisponde alla somma dei molti, le società, secondo Durkheim, sono fatte dalle idee comuni. Quindi, messa da parte la prospettiva metafisica, non vedo alcuna sostanza del soggetto al di fuori di questo. Filosoficamente, non ha senso. Quanto alle psicoterapie, esse dovrebbero cercare la sostanza della sofferenza che colpisce ciascun individuo, sì; ma questo lavoro si situa all’interno di una cornice sociale. Le nostre società si trovano di fronte a problemi di coesione che dipendono dalla perdita di efficacia dei sistemi di protezione e di lotta contro le disuguaglianze, che si sono instaurati nel XX secolo.

Nella «Meccanica delle passioni», per dimostrare come l’investimento sul cervello sia materia di uno dei grandi racconti dell’individualismo, con i suoi ideali di fiducia nelle proprie illimitate potenzialità, lei contesta la pretesa scientificità dei metodi neurocognitivisti, sottoponendoli alla prova esistenziale fornita da un memoir della scrittrice Siri Hustvedt, «La donna che trema. Breve storia del mio sistema nervoso», un romanzo di Richard Powers, «Il fabbricante di eco» e una sorta di diario del compositore Allen Shawn, «Wish I Could Be There. Notes from a Phobic Life».Cosa la interessava di più di questi lavori?

Il fatto che cercano di rendere intellegibili tensioni morali comuni a un grande numero di persone, usando un linguaggio neuroscientifico: d’altronde, la letteratura è sempre influenzata dall’ambiente sociale, intellettuale e soprattutto ideologico nel quale cade, e adotta dunque i suoi giochi linguistici. Non a caso sono tre casi americani degli anni Ottanta , quando la psichiatria cominciava già a rendere marginale il racconto di sé, un aspetto invece decisivo della cura attraverso la parola Come sottolineò Arthur Kleinman nella sua celebre arringa, alla fine degli anni Ottanta, eliminare la voce del paziente è un errore procedurale drammatico, e che il modello biomedico possa affrontare «il problema della sofferenza mentale – diceva – è una tragica illusione. Un altro aspetto è stato segnalato da Stanley Cavell, il quale a sua volta si basava su Ralph Waldo Emerson, a proposito dell’ascolto del proprio sé, nei momenti di «malinconia segreta». Cavell chiama «perfezionismo morale» la filosofia che trasforma la divisione metafisica kantiana in una divisione empirica, esistenziale, nella quale è coinvolto l’uomo comune. L’idea è che esistono doveri morali verso se stessi, e la nostra auto-educazione assume la forma di una conversazione finalizzata a rendersi intellegibile a sé e agli altri. La confusione non nasce tanto da un conflitto di doveri, ma dal fatto che non sappiamo bene cosa davvero vogliamo. In una società che esaspera la responsabilità delle proprie scelte, suggerendo che tutto è possibile, e favorendo di conseguenza patologie depressive di inadeguatezza, l’idea kantiana di due mondi, sensibile e intelligibile, viene esasperata dalla situazione reale. Cavell suggerisce un atteggiamento nei confronti dell’avversità che non appartiene né al dovere kantiano né al bene nel senso empirista e utilitarista.

Lei segnala anche la necessità di non allontanare troppo il piano utilitaristico da quello simbolico. A che proposito?

Non bisogna creare categorie totalmente separate, tutto nella vita è intrecciato, intrigato, direi. Del resto noi non pensiamo in termini astratti. E questo non perché siamo impantanati in aspetti pratici, ma perché siamo costantemente riguardati da interessi, e da egoismi, in cui la dimensione simbolica della vita sociale manca. Anche in atti come l’incesto, e più in generale in ogni forma di violenza, c’è un salto dal pensiero all’atto. Gli psicoanalisti si preoccupano troppo della presenza del simbolico, e noi siamo troppo preoccupati dalla sua «perdita». Proprio negli anni Ottanta, il passaggio da sofferenze mentali basate sul complesso di Edipo a patologie narcisistiche, ha determinato nuove forme di individualismo. Ma nelle due società che conosco meglio, quella francesi e quella americana, non ci si racconta la stessa storia: mentre in Francia, il passaggio da Edipo a Narciso ha evidenziato una crisi nel rapporto tra Stato e società, negli Stati Uniti il cambiamento è derivato dalla messa in crisi del concetto centrale di quella società, ossia la fiducia in se stessi, il fatto di poter contare su di sé, e sulle proprie illimitate potenzialità. Quando ho scritto La società del disagio, partivo proprio dalla necessità di mettere in prospettiva questo passaggio, cercando di capire come sono cambiati gli ideali relativi alla autonomia dell’individuo, che a partire dagli anni Novanta è diventata prescrittiva. E siamo ancora fermi lì.

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