Al-Sisi si gioca la Libia e si prostra all’Fmi
Egitto Il Cairo vede traballare l’uomo forte Haftar, isolato dai raid Usa. Prestito da 12 miliardi del Fondo Monetario in cambio di privatizzazioni e licenziamenti. Dopo le condizioni militari imposte dall’Arabia Saudita, ora è la volta di una «pesante austerity»
Egitto Il Cairo vede traballare l’uomo forte Haftar, isolato dai raid Usa. Prestito da 12 miliardi del Fondo Monetario in cambio di privatizzazioni e licenziamenti. Dopo le condizioni militari imposte dall’Arabia Saudita, ora è la volta di una «pesante austerity»
Il Cairo era a conoscenza dell’inizio dell’operazione aerea Usa in Libia. Ieri la conferma l’ha data il Ministero degli Esteri egiziano, riaffermando il proprio sostegno alla lotta all’Isis e – di facciata – al governo di unità nazionale di al-Sarraj.
L’Egitto, attivo in Libia già dal febbraio 2015, quando lanciò i primi raid aerei contro postazioni Isis, ha un ruolo centrale nel vicino conflitto. Principale sostenitore del generale Haftar, passato da vendicatore nazionale a capo dell’Esercito nazionale libico del parlamento di Tobruk (che non ha mai riconosciuto legittimità al governo di unità), non intende mollare la presa.
A metterla in dubbio potrebbe essere proprio l’azione statunitense: i raid Usa vanno a vantaggio delle milizie occidentali, Misurata in primis, a scapito del ruolo di leader militare che Haftar sta cercando di ritagliarsi nella bolgia libica.
A parlare di tensioni con l’Esercito nazionale è il comando dell’operazione in corso a Sirte da maggio, al Bunian al Marsous: «Le forze di Haftar mirano a conseguire guadagni personali e a prendere il controllo del potere attraverso la forza. Inaccettabile per noi», dice ad Agenzia Nova il portavoce Hadyah. Una chiusura al generale, che non dovrebbe far felice il presidente al-Sisi: la scelta di Washington indebolisce l’uomo forte del Cairo in Libia.
Al-Sisi fa buon viso a cattivo gioco, dicendosi soddisfatto e al corrente dell’operazione. Insomma, l’Egitto viene ridimensionato ma non isolato, visto il ruolo di presunto stabilizzatore della regione che il presidente golpista si è ritagliato agli occhi dell’Occidente, dalla crisi migranti alla lotta al terrorismo di matrice islamista. Tutto, però, ha un prezzo. In questo caso il costo lo pagano gli egiziani, che vedono aprirsi una stagione di austerity pur di portare a casa 12 miliardi di dollari, quelli che il Fondo Monetario Internazionale è pronto a concedere all’Egitto.
Una storia che si ripete: Il Cairo si è dovuto già piegare all’Arabia Saudita e ai suoi petroldollari per garantirsi un minimo di stabilità in un periodo di grave crisi economica. In cambio ha concesso pieno appoggio e jet militari nella guerra silenziosa contro lo Yemen e il pugno duro contro i Fratelli Musulmani, arrivando a cedere sovranità sul proprio territorio pur di omaggiare re Salman (la cessione delle isole Tiran e Sanafir, sul Mar Rosso, lo scorso aprile).
Ora il pegno da tributare sono riforme economiche che taglino l’ingente deficit egiziano, circa 36 miliardi di dollari. In questi giorni di tensioni libiche, una delegazione dell’Fmi è al Cairo. Ci resterà due settimane, il tempo necessario a definire i contorni del maxi prestito da 12 miliardi di dollari in tre anni.
Sono lontani i tempi in cui l’Occidente metteva un freno al sostegno militare e finanziario all’Egitto post-golpe, ponendo come condizione il rispetto dei diritti umani. Oggi le condizioni sono ben altre: privatizzazioni, tagli ai sussidi statali, soprattutto energetici, licenziamenti nel settore pubblico (ad oggi 5,5 milioni di persone), introduzione dell’Iva. Neoliberismo e non più democrazia.
Il Cairo si contraddice: da una parte il governo nega di aver ricevuto una lista di precondizioni dal Fondo Monetario, dall’altra è lo stesso Ministero delle Finanze a dirsi pronto a rispettare qualsivoglia richiesta, mentre i media provano ad attutire il colpo dando ampio spazio ai benefici che tanto denaro porterà al paese.
Lo stesso Al-Sisi ieri ha chiesto all’Egitto dei sacrifici per uscire dal buco di bilancio in cui il paese è caduto: «Il problema è se l’opinione pubblica sia pronta ad accettare misure che potrebbero essere pesanti – ha detto durante una conferenza pubblica – Gli egiziani amano il loro paese e sono capaci di affrontare tempi duri, ma sono troppo presi dalla propria vita quotidiana. Per questo vanno date le giuste informazioni in merito a tali misure».
Una vita quotidiana fatta di gap strutturale tra centro e periferia, di servizi pubblici quasi assenti nei quartieri più poveri e nel sud del paese a fronte di progetti infrastrutturali faraonici, di risorse idriche agli sgoccioli, di disoccupazione giovanile alle stelle e dell’incapacità di risollevare gli investimenti stranieri e il turismo, tra le principali fonti di reddito per moltissime famiglie egiziane.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento