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Al Quirinale non ci si candida, perché non è un organo governante

Al Quirinale non ci si candida, perché non è un organo governante

La candidatura ad opera di partiti o coalizioni stride con la forma costituzionale. Si finisce con l’assegnare a tale organo una connotazione politica, anzi partitica

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 19 gennaio 2022

L’elezione del Capo dello Stato riposa su previsioni che l’Assemblea costituente ha concepito in modo coerente con l’immagine presidenziale delineata dalla stessa Costituzione. Nella nostra forma di governo parlamentare, caratterizzata dal rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo, il Presidente della Repubblica è chiamato a svolgere funzioni preordinate a garantire il corretto funzionamento delle istituzioni e a presidiare l’equilibrio dei rapporti tra i diversi organi costituzionali.

L’esperienza repubblicana ci restituisce una figura concreta del Capo dello Stato provvista di poteri “a fisarmonica”, che si espandono e si ritraggono a seconda della interazione tra le tante variabili che animano la scena istituzionale, a cominciare dai concreti rapporti di forza tra i partiti. Non un potere governante in senso stretto, ma neppure un mero arbitro.

Stando così le cose, il Presidente della Repubblica è un organo politico? Chi ricopre questa carica ha, come ogni cittadino, una propria visione politica, intrisa di ideali e di esperienze, ma questa non può e non deve condizionare il proprio ruolo, che è quello di interpretare e testimoniare i princìpi costituzionali patrimonio di tutte e di tutti. Quando si afferma che il Presidente è organo super partes non si allude certo ad una sua fredda apatia politica, quanto piuttosto alla sua estraneità dall’arena politica. Al Presidente la Costituzione non chiede di abiurare e di rinnegare la propria storia politica, anche al servizio di un certo partito: chiede, piuttosto, di rinunciare a operare quale soggetto esponenziale di un dato partito. Una volta varcata la soglia del Quirinale, la militanza partitica lascia il posto alla funzione suprema di rappresentante dell’unità nazionale.

Ebbene, ha senso parlare di candidature al Quirinale? Non è forse questa una palese forzatura del dettato costituzionale che rischia di alterare irreversibilmente la nostra forma di governo parlamentare? Le candidature sono normali nelle forme di governo, quali quelle presidenziali (Stati Uniti) e semipresidenziali (Francia) dove il Presidente della Repubblica è davvero un organo governante, artefice e interprete di un certo indirizzo politico e, come tale, responsabile politicamente della propria azione di governo. È coerente con questo assetto la presentazione da parte delle forze politiche di propri esponenti quali candidati a tale carica, ai quali conferire un mandato politicamente caratterizzato.

Nel nostro Paese, invece, la candidatura al Quirinale ad opera di partiti o coalizioni stride palesemente con la configurazione costituzionale del Presidente della Repubblica. Si finisce con l’assegnare a tale organo una precisa dimensione e connotazione politica, anzi fatalmente partitica, che allontana il Presidente dall’orbita tracciata dalle norme costituzionali. E il passo verso una inedita forma di governo è davvero breve. Le insidie diventano ancor più concrete e gravi quando ad essere candidato è proprio il leader indiscusso di una coalizione di partiti, come nel caso di Silvio Berlusconi.

I rischi che si annidano dietro questa e altre possibili candidature, presentate all’opinione pubblica con una insistenza e una sistematicità mai viste prima, sono tangibili. La candidatura imprime una puntuale connotazione politica al candidato il quale, una volta eletto, verrà inevitabilmente percepito e trattato come la figura esponenziale proprio di quelle forze politiche, aggregate intorno ad un condiviso programma, che lo hanno indicato e poi votato. Risulterà difficile per il nuovo Capo dello Stato disfarsi di questa investitura. Non solo, sul piano della legittimazione politica, egli si sentirà a tutti gli effetti portatore privilegiato di quella visione politica, orientando le proprie scelte e i propri atti in quella direzione, che non è certamente neutrale dal punto di vista “partitico”.

Nelle precedenti elezioni i nomi sono emersi strada facendo. Sono state sperimentate soluzioni poi fallite. Gli attori politici coinvolti in questo delicatissimo frangente istituzionale hanno dialogato lontano dai riflettori. I rispettivi leader hanno intessuto relazioni prudenti, contatti informali, animando così un confronto dialettico poi culminato in elezioni tutto sommato condivise e, soprattutto, lontane dalle logiche di appartenenza politica. Nessun partito può vantare un diritto di precedenza nel designare formalmente un candidato intorno al quale cercare il consenso. La democrazia pluralista impone di procedere a piccoli passi, con un metodo inclusivo informato ai supremi princìpi costituzionali, proprio per scongiurare il rischio che al prossimo (o alla prossima?) Presidente della Repubblica si assegni una etichetta partitica del tutto contrastante con il dettato costituzionale.

*Ordinario di diritto costituzionale Univ. Pavia

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