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Al Qaeda, l’Isis e la strategia dei rapimenti

Al Qaeda, l’Isis e la strategia dei rapimentiUno dei video di propaganda dell'Isis – Reuters

Yemen/Siria Nella capitale yemenita Sana'a sequestrata ieri una francese dipendente della Banca Mondiale, a nord della Siria rapiti 90 assiri. Intanto la Turchia entra con i tank in Siria e i media locali parlano di coordinamento con il califfato

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 25 febbraio 2015

Il rapimento di occidentali diventa strumento di pressione anche in uno Yemen in guerra civile. Stavolta però non c’entrano i miliziani neri dell’Isis. È probabile che dietro il sequestro di una cittadina francese (in missione per la Banca Mondiale) ieri a Sana’a ci sia il braccio yemenita di al-Qaeda, lo stesso che rivendicò la strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo.

Poche le informazioni a disposizione: il Ministero degli Esteri francese ha fatto sapere che una sua cittadina è stata rapita insieme all’autista e che i servizi segreti stanno lavorando alla sua localizzazione e liberazione, invitando gli altri francesi presenti a lasciare il paese.

La situazione a Sana’a è al collasso come del resto in tutto il paese, con la minoranza sciita Houthi che controlla i palazzi del potere e il presidente Hadi che, dopo un mese agli arresti domiciliari, è fuggito sabato nella città meridionale e roccaforte sunnita Aden, rifiutando di dimettersi. C’è anche chi avanza l’ipotesi che dietro il rapimento ci siano milizie tribali che in passato non esitarono ad usare i sequestri per fare pressioni sul potere centrale. Un potere che oggi però non esiste: gli Houthi hanno assunto il controllo di Sana’a ma non dell’intero paese, che resta ora diviso in zone di influenza e preda dell’assordante assenza dello Stato.

Chi, invece, non ha mai sospeso la politica del rapimento è lo Stato Islamico. Mentre esperti Usa (e ufficiosamente i servizi segreti egiziani e la Cia) dichiarano falso il video dei 21 copti decapitati in Libia dieci giorni fa, giustificazione principe al tanto desiderato intervento del Cairo del crociato al-Sisi nel paese nordafricano, ieri è arrivata la notizia di un altro rapimento di massa.

Di nuovo target è una minoranza, stavolta quella assira cristiana. Fin dall’inizio dell’avanzata islamista le minoranze etniche e religiose – a cui era garantita maggiore sicurezza sotto i nemici dell’Occidente, Assad e Saddam – sono nel mirino del califfato, permettendo così a Europa e Usa di ergersi a loro difensori: il presidente Obama lanciò i primi raid in Iraq a due mesi dalla presa di Mosul, dopo il massacro degli yazidi, presto dimenticati. «Le bombe umanitarie», le definirono in molti.

Ma dietro il rapimento di 90 assiri cristiani ci sarebbe lo scontro tra kurdi e islamisti: gli ostaggi sarebbero stati portati nelle montagne di Abd al-Aziz, dopo essere stati sequestrati ieri all’alba a nord est della Siria nel distretto di Hasaka, parzialmente sotto il controllo kurdo dopo un’ampia controffensiva a seguito della liberazione di Kobane. L’Isis avrebbe chiesto in cambio della loro liberazione il rilascio di islamisti detenuti dalle forze kurde. Una risposta alle vittorie segnate dopo Kobane: altri 23 villaggi verso il confine con l’Iraq sono stati strappati nei giorni scorsi dalle mani dell’Isis.

Ma ad operare nel nord della Siria non sono solo i kurdi. Tra sabato e domenica, carri armati turchi hanno attraversato il poroso confine per evacuare le spoglie di Suleiman Shah, nonno di Osman I, fondatore dell’impero ottomano, e portare in salvo i 40 soldati a difesa della tomba. Passando per Kobane: la prima incursione terreste turca ha avuto come luogo di transito la città da poco liberata, le cui autorità hanno attivamente partecipato all’operazione.

Così Ankara ha ordinato un’azione militare che prima aveva evitato con ogni mezzo possibile: quando si trattò di sostenere la resistenza kurda, le autorità turche non mossero un dito e l’unico fuoco aperto fu destinato ai rifugiati kurdi in fuga o ai combattenti che tentavano di tornare a difendere Kobane.

Per Erdogan, aspirante «imperatore», il mausoleo ha un valore maggiore. Non tanto per ragioni storiche, ma per il chiaro messaggio inviato al nemico Assad, per la cui testa la Turchia si sta giocando la credibilità internazionale. Immediata è giunta la reazione del governo di Damasco che ha parlato di «flagrante aggressione» e dell’ennesima prova di relazioni tra Turchia e Stato Islamico, che non ha alzato un dito mentre i carri armati battenti bandiera turca si muovevano liberamente in Siria.

Una cooperazione indiretta di cui ieri parlavano media arabi e turchi: secondo Al-Akhbar, è pressoché impossibile gestire una tale operazione (39 carri armati, 157 veicoli militari e 572 soldati) senza il tacito consenso del califfato; secondo il Daily Beast, che cita agenzie turche, Ankara avrebbe aperto negoziati con l’Isis per garantirsi un passaggio sicuro verso il mausoleo, in cambio della liberazione di jihadisti detenuti in Turchia.

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