Alla fine la tempesta è arrivata, quella vera e quella di Nick Cave. Entrambe furibonde, entrambe memorabili. La sovrapposizione tra i due eventi porta un’ora precisa. Sono le 22.38, quando Nick Cave annuncia sul palco del NOS Primavera Sound di Porto: «Questa è una canzone su un uragano»…il grande schermo comincia a proiettare immagini di palme sventrate dalla pioggia e dal vento e Nick Cave sciorina il suo cataclisma poetico: «Una grande nuvola nera è in arrivo!/Lì all’orizzonte/Ferma al grande fiume/Un tuono romba in lontananza/Romba ferocemente come la Bestia/La Bestia arriva, arriva quaggiù/Dì pure che queste strade sono fiumi/Cade la pioggia nera/Acqua, acqua ovunque».

Tutto intorno al palco la tempesta imperversa da ore, perché dopo giorni di minacce e borbottii, sulla costa nord del Portogallo è arrivata «la grande nuvola nera» carica di pioggia. I trentamila, coperti perlopiù di mantelline, che assistono stoicamente al concerto dello sciamano australiano, non hanno nessuna intenzione di abbandonare la postazione e si godono fino in fondo la catarsi di Nick Cave che canta «Tupelo», la canzone su un uragano che devastò la regione del Mississippi nel 1936. La pioggia atlantica si allarga ben oltre il mega schermo del Main Stage e avvolge ogni cosa, e sferza senza sosta sul pubblico di questo grande festival.

Siamo alla settima edizione di questa succursale nobile del più celebrato e stagionato Primavera Sound catalano. Si celebra ogni anno con una settimana di scarto e propone una folta selezione del cast del festival spagnolo, con qualche aggiunta locale (Caroline Lethô, Luìs Severo, Solar Corona…) e la stessa voglia di stupire senza perdere la verve ludica. Sei palchi allestiti all’interno del Parque da Cidade di Porto e un range stilistico di proposte altrettanto frastagliato. Il Parque è a poche decine di metri dalla spiaggia e a qualche centinaia dal quartiere Matosinhos, meta privilegiata degli itinerari culinari a base di pesce delle famiglie locali. Il cattivo tempo ha graziato gli astanti per tre dei quattro giorni di festival (inclusa anche un’anteprima concertistica in centro città con il set di Fat Boy Slim), poi è arrivato Nick Cave e con lui il temporale…Prima però c’è stato il tempo di ballonzolare tra uno stage e l’altro, incrociare ad esempio la sguaiata, a tratti disperata, esibizione degli Starcrawler con la bionda front-woman della band californiana, sempre a un passo dal collasso isterico ed ebete, quasi volesse impersonare nello stesso momento Courtney Love e Cristina Martinez, vestendole entrambe con la ricetta solo apparentemente improbabile di aggiungere un bel po’ di glam a delle croste di sangue raffermo. A far da contrappasso a questa formula greve, le movenze felpate, anche dal punto di vista sonoro, della leggiadra Kelsey Lu: pose e look da diva, chitarra, qualche base pre-registrata e una voce gospel che regala al pubblico molti brani del suo album d’esordio (Church) e una serie di inediti che lasciano ben sperare sui suoi prossimi passi discografici.

Kelsey Lu si è esibita poco dopo e a pochi metri dal palco che ha accolto l’inconsistente set di Kelela, fantomatica diva nu-soul di origine etiope (ma nata a Washington D.C.) che ha messo in mostra solo le pecche di una voce flebile come un filo di lana, mosse da pin-up e un assortimento di basi manovrate da un dj fantomatico come lei. Per veder lavorare dei dj con grande creatività è bastato passare dalle parti di Fourtet, Jamie XX, Floating Points e Joe Goddard, tutti abilissimi ad intrattenere il pubblico con un vasto campionario di beat digitali, mentre altre felicissime convulsioni elettroniche (sia pur coniugate ad inserti analogici) sono arrivate dai set di Public Service Broadcasting, Thundercat, Fever Ray e Nils Frahm. Tra le non numerosissime proposte legate alla matrice etnica dei suoni vanno segnalate le effervescenti istanze dei capoverdiani (residenti a Lisbona) Fogo Fogo, quelle altrettanto esuberanti delle due gemelle cubane (residenti a Parigi) Ibeyi e la corrosiva ricetta post-tropicalista del trio di Sao Paolo, Metà Metà.

E se l’arcigna formula del combo verdeoro richiamava ogni tanto il free-funk di un gruppo seminale come i Rip Rig & Panic di Neneh Cherry (che però visse la sua fertile stagione discografica quasi quarant’anni fa), più difficile collocare la sfuggente miscela dei neozelandesi Unknown Mortal Orchestra. C’è del rock (di matrice psichedelica) e ci sono molte altre cose nel pedigree del gruppo. Evidentemente registrare il loro ultimo album tra Portland, Seul, Reykjavik, Città del Messico e Auckland, non deve aver aiutato la band capitanata da Ruban Nielson a focalizzare le proprie ossessioni sonore, col risultato che l’impasto non sempre funzionava e la loro maionese, spesso impazziva. A dire il vero ad accontentare gli estimatori del rock, nelle più diverse declinazioni, c’erano state anche le affidabili esibizioni di Wolf Parade, The War on Drugs, Mogwai, Father John Misty, Grizzly Bear, mentre non possiamo chiudere questo resoconto inevitabilmente parziale (c’erano più di settanta concerti programmati in quattro giorni di festival…) senza accennare ad un’altra matrice musicale molto ben rappresentata a Porto: l’hip hop. Il confronto con A$ap Rocky e Vince Staple l’ha vinto a mani basse Tyler Gregory Okonma meglio conosciuto come Tyler, The Creator. A lui spetta la palma di migliore effervescenza ritmica, verve scenica, ribalderia timbrica e micidiale potenza del flow.