«Al mondo digitale serve equilibrio»
Intervista Giovanna Sissa, fisica e informatica all’Università di Genova che ha seguito un approccio interdisciplinare al tema dell’impatto ambientale dell’Information and Communication Technology (Ict)
Intervista Giovanna Sissa, fisica e informatica all’Università di Genova che ha seguito un approccio interdisciplinare al tema dell’impatto ambientale dell’Information and Communication Technology (Ict)
L’universo digitale non potrà continuare a espandersi ai ritmi attuali senza trovare un equilibrio tra sviluppo, innovazione, limiti fisici del pianeta e tutela dell’ambiente». Giovanna Sissa, fisica, PhD in informatica, nelle sue ricerche presso l’Università di Genova, ha seguito un approccio interdisciplinare al tema dell’impatto ambientale dell’Information and Communication Technology (Ict), quell’impalpabile mondo digitale, che così impalpabile non è.
Dottoressa Sissa, la transizione digitale sosterrà la transizione ecologica?
La transizione digitale può dare un forte impulso alla transizione ecologica in quanto consente di realizzare applicazioni che riducono drasticamente le emissioni di CO2 e danno una mano all’ambiente in vari modi. Anche l’Intelligenza artificiale darà un contributo essenziale ad affrontare i cambiamenti climatici. Ma non è automatico che la transizione digitale comporti anche quella ecologica. Le videoconferenze sono un esempio di come il digitale può contribuire a tagliare le emissioni di CO2 derivanti dagli spostamenti. Non va trascurato però che i dispositivi digitali per essere costruiti necessitano, in processi di produzione complessi, di minerali e terre rare. A fine vita vanno gestiti e inoltre, mentre funzionano, consumano energia elettrica. Noi non lo percepiamo: quelli che noi usiamo sono per lo più dispositivi piccoli, leggeri, efficienti, che non si scaldano né emettono fumi. Il mondo digitale va visto nella sua interezza: la gran parte dei consumi elettrici avvengono in infrastrutture globali di trasporto dati o nei data centre, dove i dati vengono elaborati. E questi consumi sfuggono al nostro controllo: non finiscono sulla nostra bolletta elettrica, quindi non li paghiamo, ma esistono.
L’organizzazione The Shift Project sostiene che la transizione digitale, per come è gestita, aggraverà i cambiamenti climatici, più che aiutare a prevenirli.
Questa dichiarazione, così generica, mi sembra eccessiva. Mi sento di dire che, ai ritmi di crescita attuale, le emissioni dell’Ict non sono più trascurabili. The Shift Project è stata duramente contestata dall’Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, per le quantificazioni dei consumi energetici dello streaming, considerate genericamente sovradimensionate. L’Iea ha fornito delle sue stime, diversificate sulla base di 3 parametri che determinano i consumi elettrici: i device di fruizione – guardare un film sullo smartphone è diverso dal guardarlo su una smart tv -, la qualità di definizione e il tipo di collegamento Internet. Va riconosciuto a The Shift Project il merito di aver posto questo tema all’attenzione generale. Paradossalmente, in una società che si fonda sui dati non esistono oggi dati globali, basati su misurazioni, del consumo energetico indotto dagli usi digitali. Esistono solo stime, quasi sempre non confrontabili fra loro. Molte dunque le controversie.
Cioè, le aziende del digitale non dichiarano i loro consumi?
Certo che li dichiarano. Greenpeace produce periodicamente dettagliati Report analizzando anche quanta energia da fonti rinnovabili viene utilizzata dai player del digitale. Il punto è un altro: i consumi elettrici – e dunque le emissioni di CO2 – che derivano dalle attività digitali in cloud computing, dipendono da chi eroga tali servizi in cloud. Per le aziende le attività realizzate mediante l’acquisizione di servizi cloud sono considerate in outsourcing e non hanno l’obbligo di rendicontarle secondo il Greenhouse Gas Protocol. Non è obbligatorio.
Oltre ad essere energivoro, il mondo digitale non è poi così immateriale. Tutti i dati che usiamo, che siano testi, immagini, musica o video, il biglietto del treno o la prenotazione del vaccino, vengono immagazzinati su supporti fisici da qualche parte nel mondo.
Certo. I bit per esistere necessitano di dispositivi di storage ed elaborazione, di circuiti a semiconduttore. Per costruirli si utilizzano risorse naturali, limitate su questo pianeta.
Secondo il fisico inglese Melvin Vopson, tra 150 anni ci saremo giocati tutti gli atomi che abbiamo a disposizione. E’ un’ipotesi plausibile?
Difficile fare previsioni in un arco temporale così lungo. La ricerca avanza e mette a disposizione nuovi tipi di materiali, nuove tecnologie, nuove architetture hardware e software, che producono migliore efficienza. Solo vent’anni fa era impensabile prevedere lo sviluppo che ha avuto l’universo digitale. Qualcuno però comincia a cercare materiali su altri pianeti…
Alcuni documenti Ue sul decennio digitale che si è aperto quest’anno parlano di semiconduttori sostenibili. Che cosa sono e a che punto è la ricerca?
Dispositivi e circuiti sono sostenibili se vengono progettati dall’inizio in modo tale da consentire facilmente il recupero dei componenti. Più aumenta la miniaturizzazione dei dispositivi, più è difficile il recupero delle materie prime con cui sono fatti. Il processo di riciclo è tanto più complesso quanto più è complessa la costruzione. Ed è tale complessità nella costruzione a dare valore all’oggetto: diminuiscono le dimensioni, aumenta il numero di materiali differenti utilizzati. C’è ancora molto da fare, c’è grande spazio per l’innovazione. E’ importante che si affermi un tipo di ricerca interdisciplinare che sappia anche tenere conto degli impatti sull’ambiente.
Se per gli elettrodomestici esistono le classi energetiche e si può scegliere tra prodotti più o meno energivori, per smartphone, Pc o tablet questa classificazione non esiste ancora.
Molte aziende stanno puntando sul green, penso che arriveremo a qualcosa del genere. Inoltre, l’Ue sta lavorando ad una normativa sulla riparabilità dei dispositivi per ovviare al problema dell’obsolescenza programmata. Un tempo i computer si potevano aprire e aggiungere schede di memoria. Oggi sono scatole chiuse. Va detto che, a volte, quando i nostri dispositivi diventano lenti, è un problema di software che, dopo vari aggiornamenti, richiede sempre più risorse per funzionare bene. Dobbiamo però ricordarci anche che se il software non è più supportato, il dispositivo diventa poco sicuro. Insomma: bisogna trovare un punto di equilibrio fra innovazione e sostenibilità.
Come sarebbe possibile rallentare il tasso di crescita mirabolante del settore e i suoi consumi?
Un po’ di sobrietà digitale non guasterebbe. Viviamo in un momento storico in cui il superfluo è dannoso, e questo vale anche per il digitale. Ci vengono continuamente offerti servizi gratuiti che accettiamo, anche se non ci servono, per esempio le App. Raramente ci chiediamo perché vengono regalate, nonostante i consumi che comportano, ignorando che hanno un costo che ricade sull’ambiente. Come abbiamo imparato a spegnere la luce e a chiudere il rubinetto dell’acqua, dovremo imparare l’uso consapevole del digitale.
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