L’assunto antropologico dal quale muove la luminosa e chiassosa esposizione che il MAXXI offre al popolo dell’arte fino al prossimo 28 aprile pone al centro dell’attenzione la strada intesa come luogo di esperienze quotidiane, incontri, riflessioni, pensieri nati nel campo del vissuto immediato. Nietzsche, nel 1888, ha rilevato e rivelato che «tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina», per strada appunto, dove si afferra il puro e semplice dato fenomenico del reale: anche quello più futile, anche quello più risibile, anche quello più crudele o nauseante.
Nel suo taglio squisitamente umano La strada Dove si crea il mondo è infatti un percorso multidirezionale e rizomatico in cui è possibile perdersi tra i mille volti di un mondo che sorregge una varietà di lingue, gesti, cibi e mezzi ,di trasporto, abbigliamenti e riti, sostenibilità o aggressioni ambientali, di valori, di messaggi e massaggi mentali, di culture irriducibili a uno schema unitario. Intesa come un libro aperto che evidenzia l’attitudine umana al viaggio, a un’avventura che implica movimento e assorbimento, a un’esperienza dinamica della conoscenza, a un racconto reale o metaforico, meditativo o creativo – è sulla strada (sul lungofiume più esattamente) che il protagonista intradiegetico delle notti bianche di Dostoevskij incontra Nasten’ka, e sempre sulla strada nasce il «meriggiare pallido e assorto» del nostro Montale, o ancora l’intera vicenda autobiografica di Kerouac –, questa passeggiata progettata al MAXXI da Hou Hanru (direttore artistico del museo, curatore della mostra e del catalogo edito da Quodlibet) è un brillante disegno riflessivo che collega l’arte all’abitare, a quel tessuto fragile e irrequieto che è via via la città, la metropoli, la megalopoli che brulica di vita, che implode e che concentra in sé una miriade di problematiche quali la cementificazione, la gentrificazione, il sovraffollamento urbano, la disoccupazione, la povertà, l’aggressività, l’esclusione, la decadenza o la sfioritura del dialogo determinata dalla perdita dei confini, dalla possibilita di vivere nel cyberspazio e di poter andare oltre il senso del luogo.

Con più di duecento opere di artisti, designer, architetti e urbanisti collocate tra le gallerie 3 e 4 del museo, e inserite a seconda delle tematiche in sei sezioni comunicanti (Mapping, Interventions, Street Politics, Everyday Life, Good Design, Community, Open Institutions), La strada che propone Hanru – ad onor del vero la mostra è organizzata assieme allo staff curatoriale e di ricerca del museo – si presenta come un territorio aperto dove lo spettatore si imbatte «in un nuovo campo di battaglia intellettuale, sociale e politico», in «un laboratorio per l’esercizio della libertà civica», in «un terreno di scontro tra sviluppo tecnologico e resistenza all’invasione della privacy», in un «teatro di progetti innovativi e creativi dedicati a temi nodali come la crisi economica, urbana e politica, la giustizia sociale, i nuovi modi di abitare lo spazio, lavorare e generare scambi».
Non ci sono sezioni principali della mostra, tutto è centro e tutto è periferia: e il visibile complicato e l’invisibile semplice (volendo usare le parole del Nobel per la chimica Jean Baptiste Perrin) si confondono, si sovrappongono per dare vita a una piazza impazzita dove le voci si fanno aspre, acute, e la parola rotola accanto all’orecchio come uno sconosciuto che sente l’esigenza di raccontare a gran voce l’assurdità quotidiana.
Se il piccolo e stretto corridoio che affaccia su Piazza Alighiero Boetti è tutto asfaltato (letteralmente asfaltato come la carreggiata di un’autostrada) e ospita, accanto ai lavori di Liu Qingyuan, un’ampia installazione di Shen Yuan il cui titolo – Uncomfortable shoes (Elles sont parties pourtant elles n’ont nulle part où aller) – è tautologicamente offerto dalla disposizione di tante scarpine cinesi che roteano come il filo di un palloncino al vento, sul corridoio a U le parole «cultura», «sveglia» e «popolo» di Crossed Anamorphosis (2018), il lavoro site specific del collettivo artistico multidisciplinare denominato Boa Mistura, sembrano risucchiare il viaggiatore e portarlo in una illusione ottica che altera la percezione dello spazio circostante.
Girato l’angolo, una Architettura minima (2016) di Eugenio Tibaldi fa inciampare nell’abisso del quotidiano, tra le varie abitazioni mobili dei senzatetto che popolano le stazioni, i ponti, i sottopassi o i portici delle città. È in questo spazio sempre più aperto e volutamente caotico che, tra una serie di proiezioni sospese come rigide e rumorose bandiere dove si avverte il reale pericolo d’oggi (la perdita definitiva dell’horror vacui e la caduta in un deleterio horror pleni), lo spettatore incontra due pile di manifesti verdi e rossi su cui campeggia la scritta Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Antonio Gramsci: un’opera di Alfredo Jaar, Chiaroscuro (2018), che alcuni magari hanno già visto in giro per la Capitale e che ora possono finalmente portare a casa – la distribuzione dei poster è libera – per continuare magari la loro ricerca su Gramsci o su un artista speciale che tra il 2004 e il 2005 ha realizzato il Italia la Trilogia di Gramsci, costituita da Cella infinita (Galleria Lia Rumma, Milano), Che cento fiori sboccino (MACRO, Roma), Le ceneri di Gramsci (Studio Stefania Miscetti, Roma), oltre a Prologo: Alla ricerca di Gramsci (Roma) e Epilogo: Estetica della Resistenza (Como).
Colpisce in questa sezione, in questo ambiente che invita alla discesa tra immagini e suoni che si ingarbugliano a tal punto da dare l’effetto del brusio quotidiano, La strada di Roma (2011): opera realizzata da Jimmie Durham dopo cinque anni di permanenza nella Caput Mundi durante i quali non solo ha raccolto diversi materiali trovati per strada ma li ha poi riuniti e presentati a terra come un elegante ammasso di rifiuti urbani per evidenziare naturalmente un modus operandi che si nutre di anti-monumentalità.
Di questo racconto – indimenticabili tra l’altro i lavori di Francis Alÿs, di Thomas Hirschhorn, di Halil Altındere, di Ahmet Ögüt, di Moe Satt e di Andrea Salvino presente nella sezione «Street Politics» con Tutto il resto è noia (2001) e Troppo presto, troppo tardi (2015) – degni di nota sono inoltre gli impianti didascalici che come segnaletica stradale accompagnano il pubblico tra le opere e aiutano a modellare il ritmo serrato della riflessione che porta a ripensare il tessuto sociale in tutta la sua stravagante e a volte tragicomica complessità: e questo grazie all’arte che, in quanto «proiezione del sociale» (Lévi-Strauss), invita a riflettere oggi sulle molteplici identità della strada nel mondo contemporaneo e continua a tener vivo il patrimonio culturale della civiltà.