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Al caffè delle riforme sostenibili

Al caffè delle riforme sostenibiliIl presidente cubano Raul Castro – Reuters

Cuba Raúl Castro cerca di rimettere in piedi l’economia rafforzando il welfare socialista

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 25 giugno 2014

In un articolo pubblicato in 14ymedio.com, il giornale online della superbloguera Yoani Sánchez, una nota dissidente ammette che in sei anni di presidenza Raúl Castro ha introdotto «una quantità di cambiamenti legali (ovvero riforme) paragonabile a quella prodotta nei primi anni della Rivoluzione e molto maggiore delle riforme messe in opera nei quarant’anni precedenti il “raulismo”». E elenca le maggiori riforme: distribuzione delle terre incolte in usufrutto a agricoltori privati e a cooperative; legalizzazione del «lavoro non statale» ovvero del «business privato»; permesso di vendere e comprare case, mezzi di trasporto e altri beni; autorizzazione all’uso di telefoni cellulari e accesso a internet e permesso di alloggiare in alberghi e altre località prima riservate ai turisti stranieri; nuova legge sull’immigrazione che elimina «l’autorizzazione all’uscita e all’ingresso» e estende il permesso di residenza all’estero fino a 24 mesi e la più recente legge sugli investimenti esteri per favorire l’afflusso di capitale straniero.

Queste misure, scrive, dovrebbero costituire una svolta radicale rispetto al modello socioeconomico precedente, quello che definisce «l’immobilismo di Fidel», ovvero «una società soggetta a un centralismo che ha eliminato ogni vestigia di autonomia della società civile cubana». La dissidente afferma, però, che il «nuovo modello economico» proposto dalla squadra di Raul è «più un’operazione di facciata che una realtà».
Si tratta di critiche di natura politica, afferma in un suo articolo l’economista Rolando López del Amo, perché, come ha messo in chiaro in più occasioni il vice presidente del Consiglio dei ministri e responsabile dell’attuazione delle riforme, Marino Murillo, il nuovo modello economico «non implica cambi politici», ovvero ha lo scopo di «rafforzare il socialismo cubano» e non di smantellarlo. Però, a livello di macroeconomia, gli argomenti non mancano all’opposizione: secondo i dati resi pubblici dall’Uffico nazionale di statistica, il volume fisico prodotto dall’industria manufatturiera cubana è il 48% di quello prodotto nel 1989, ultimo anno in cui Cuba ricevette gli aiuti dell’Unione sovietica.

Tale livello raggiunge il 53% se si esclude l’industria dello zucchero, che è stata una delle più colpite dalla crisi. Non solo, il peso cubano vale 25 volte meno che nel 1990 e dunque tutti i salari sono stati di fatto ridotti di 25 volte in capacità di acquisto.

La perdita di valore del peso cubano, scrive López del Amo, «è la madre della perdita di altri valori perché, semplicemente, i lavoratori non possono soddisfare le loro necessità con i salari che ricevono. Da questa necessità di sopravvivenza sono nati i concetti di “luchar” (lottare per sopravvivere), non importa come, anche rubando e prostituendosi».

Per questo, conclude, è necessario accelerare il movimento di riforme già approvate con l’obiettivo di mettere le basi di un «socialismo prospero e sostenibile». Però, non è possibile cambiare un modello economico basato sul quasi totale controllo statale dei mezzi di produzione e dei servizi e su un forte egualitarismo «senza sconfiggere il burocratismo», una mentalità burocratica che tutto giustifica e che paralizza il Paese. Per liberare le forze produttive dalle briglie impostele «dal burocratismo, è necessario un cambio di mentalità, di strutture e anche di quadri politici».

Gli effetti delle riforme, però, si fanno già sentire. Innanzi tutto nel settore privato. «La liberalizzazione ha attivato una nuova mentalità » nei gestori di cafetterie, paladares (ristoranti), pizzerie, officine, cooperative, negozi di artigianato, barberie e ginnasi: più di 450.000 cubani, più o meno il 9% della popolazione attiva, lavora in 200 categorie di cuentapropistas (gestione privata), da agenti immobiliari a sarti, da falegnami a fotografi e tassisti.

Ma il vicepresidente Murillo ha messo in chiaro che per finanziare le misure che rendano possibile la crescita e nel contempo mantenere la «giustizia sociale»–istruzione e sanità gratuite, la libreta che assicura a tutti i cubani una quota di beni alimentari a bassissimi prezzi- è necessario aumentare il flusso di investimenti esteri fino al tetto previsto per quest’anno di 2,5 miliardi di dollari. L’obiettivo principale è rafforzare quei settori – come la produzione agricola- che permettano di sostituire le importazioni. Cuba infatti compra all’estero il 60% di quello che consuma con una spesa che l’anno scorso ha sfiorato 1,8 miliardi di dollari.

Il socialismo cubano ha dimostrato di saper redistribuire la ricchezza a livello sociale, ma oggi, afferma lo storico Lopez Oliva, il problema principale è produrre, senza rimettere in piedi l’economia è impossibile redistribuire e mantenere il welfar sociale.

Attrarre capitali stranieri e soprattutto investimenti che implichino un trasferimento di tecnologia, dunque una modernizzazione del settore industriale cubano, è dunque uno degli obiettivi strategici del governo di Raúl Castro. Con questi obiettivi si è aperta lunedì all’Avana «la Prima convenzione e esposizione internazionale Cubaindustria 2014 alla quale, riferisce il quotidiano del pc Granma, partecipano più di 400 impenditori stranieri in rappresentanza di 29 paesi (Italia compresa).

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