«Volevamo sottolineare che ciò che ci dovrebbe stare più a cuore e che dovremmo proteggere, la bellezza, è già qui, non lassù nel cielo. Il Paradiso, i corpi celesti, sono qui da noi». Così Claudia Sorace e Riccardo Fazi, ovvero la compagnia teatrale romana Muta Imago, descrivono il «nucleo» di Bar Luna, l’esposizione-installazione progettata insieme a Alice Rohrwacher in occasione della retrospettiva che il Centre Pompidou di Parigi ha dedicato a quest’ultima. La costruzione di contesti in cui infrangere la quarta parete, cercando una relazione che inneschi anche un procedere oltre il sé quotidiano, è d’altronde una delle linee poetiche del gruppo che da sempre coltiva un’attenzione drammaturgica particolare per il suono e le luci. Elementi che nel Bar Luna entrano in collisione con l’immaginario di Rohrwacher e in particolare del suo ultimo film La Chimera: «Quando si crea un oggetto artistico si ha paura che confrontandosi con le proprie radici personali si riuscirà difficilmente a parlare ad altri, ma invece, se si va in profondità, ci si rende conto che queste radici sono tutte attaccate». In attesa di vedere il progetto in Italia, abbiamo intervistato la coppia di artisti.

Com’è nata la collaborazione che ha dato vita a Bar Luna?

Con Alice Rohrwacher siamo amici da tempo e c’era già il desiderio di fare qualcosa insieme. La proposta del Pompidou di una retrospettiva dei suoi film accompagnata da una mostra è stata l’occasione giusta. Non interessava né a noi né a lei un’esposizione legata alle fotografie dei set o delle riprese, c’era il desiderio di creare qualcosa di più immersivo, uno spazio da abitare. Gli spazi sono quelli del livello -1 del Pompidou, una sorta di grande piazza accessibile a tutti senza biglietto, la sfida era come utilizzarli; abbiamo lavorato sul mito di Orfeo e Euridice che torna nel film.

Quale struttura avete dato alla mostra?

Il Bar Luna è il cuore del progetto proprio perché cercavamo un luogo accogliente e di relazione, prendendo spunto dal bar di paese in La Chimera. È aperto in determinate ore del giorno grazie a una collaborazione con alcuni studenti dell’Accademia di Belle Arti di Parigi e dell’Università di Paris Nanterre. Oltre ad essere servito del caffè, ci sono questi ragazzi che leggono degli estratti di Corpo celeste di Anna Maria Ortese, che è una delle tracce di questa mostra e non solo perché così si chiama il primo film di Alice. Ortese afferma che la terra in cui viviamo sembrerebbe soltanto un ammasso di fango e noi continuiamo a sognare i corpi celesti ma anche la Terra in realtà lo è. E poi dice che tutti noi respiriamo la stessa aria, ma siamo solo una fra le specie che abitano il pianeta. Il suo è un richiamo ad un’altra modalità di presenza e abbiamo provato a restituirlo col Bar Luna. Questo meccanismo sta funzionando, ci sono persone che lo frequentano abitualmente, leggono un libro, giocano a carte o a biliardino. Al suo interno c’è una cabina telefonica dove si può lasciare un messaggio rispondendo alla domanda: che cosa ti lega al mondo? Queste registrazioni una volta lavorate vengono riprodotte in un’altra stanza della mostra.

Che risposte avete raccolto?

Quando abbiamo iniziato la domanda al telefono era: quali sono le tue radici? Ma questo spostava tutto nel passato e le risposte erano spesso di natura nostalgica, anche se non è corretto perché le radici, come negli alberi, sono quello che ci fa vivere adesso. L’immagine della radice si è trasformata nell’immagine del filo rosso, che c’è nel film, perché ciò che ci lega al mondo contiene il presente e il futuro. E quello che si scopre alla fine è quanto per noi esseri umani sono importanti gli altri esseri umani – cosa che non si direbbe mai guardando come va il mondo. Come succede per gli alberi, che si dice siano tutti collegati tra loro sotto la terra, forse anche noi lo siamo, e grazie a queste relazioni riusciamo a stare qui. Le risposte che riceviamo finiscono spesso con un punto interrogativo, perché tutti abbiamo un’incertezza su cosa ci lega al mondo. Orfeo quando va agli inferi da Euridice ha delle domande: sarà sempre lei? Lo avrà dimenticato? Nella versione di Rilke lui si volta proprio perché ha paura delle risposte, e quindi la lascia andare. È tutto più fragile di come pensiamo, quello che ci interessa è che ci sia uno spazio per questo sistema di domande e fragilità.

Qual è il vostro rapporto col cinema?

Amiamo moltissimo il cinema, e gli invidiamo un po’ il rapporto con la realtà, col presente, la possibilità di dialogare con le persone in maniera inaspettata. Allo stesso tempo ci siamo chiesti: quale dei nostri spettacoli potrebbe diventare un film? E ci siamo detti: nessuno. Noi lavoriamo su un sistema di immaginazione che nasce dalla presenza fisica, dalla vicinanza sensibile. Il cinema è magnifico ma le due dimensioni non ci bastano, abbiamo bisogno del tridimensionale o persino del quadridimensionale. Una cosa bella del cinema è che riesce ancora a proteggere la sua magia, perché anche se è tutto finto viene percepito come profondamente vero. La sfida a teatro oggi, dove quel finto non è più sostenibile, è salvaguardare quella dimensione nonostante si è costretti ad abbracciare i corpi, lo spettatore, con relazioni che mettono in crisi il livello narrativo più puramente falso che il cinema riesce ancora ad avere. Forse anche in teatro, rispetto al post drammatico, è necessario un ritorno alla finzione per attivare la dinamica di emozione e partecipazione. Credo che creare dei mondi finzionali sia la caratteristica più cinematografica dei nostri lavori.