Se il fenomeno al botteghino del weekend pasquale è stato Super Mario Bros. – Il film, la vera sorpresa, al terzo posto della classifica d’incassi, è un film prodotto da Amazon e inizialmente previsto per una distribuzione solo su piattaforma. È Air – La storia del grande salto, diretto da Ben Affleck su sceneggiatura di un trentenne amante della pallacanestro, cresciuto (tifando i Bulls) nei sobborghi di Chicago, Alex Convery.

IL SUO LANCIO riconfigurato in sala, dopo i risultati entusiasmanti di alcune proiezioni test, Air è un’astuta origin story che ci riporta in quella che un tempo era stata soprannominata la decade dell’avidità, ma che oggi si ricorda con l’innocua desiderabilità di una pantofola. L’anno è il 1984, il luogo il Pacific Northwest, prima che venisse colonizzato dalle .com e che i titani dell’industria americana si trasformassero nella versione Joker di sé stessi, e cioè in Elon Musk o Jeff Bezos.
Nel quartiere generale della Nike – un concatenarsi di uffici anonimi, separati da pareti di vetro e foderati di moquette marrone, in cui sembra non potrà mai farsi strada nemmeno un raggio di sole – un gruppo di individui stropicciati, in varie gradazioni di beige, discute i dettagli per la prossima campagna promozionale della linea di scarpe da pallacanestro. Dalle loro frustrate conversazioni apprendiamo che, specialmente in quel settore, la Nike fatica molto, rispetto alla Adidas – l’equivalente sportswear della Mercedes Benz – e alla meno tecnologicamente elaborata ma molto hip Converse. Per ovviare al passivo del «settore basketball», Phil Knight (Affleck, in una nuova, divertita incarnazione «da caratterista», dopo il caschetto biondo platino in The Last Duel) ha assunto Sonny Vaccaro (Matt Damon), tarchiato, con la pancia e i piedi piatti, ma pare dotato di fiuto infallibile quando si tratta di promesse del cesto. Per la prima parte del film, il suo fiuto non può molto contro i limiti del budget promozionale che gli viene messo a disposizione. Ma, alla fine, la sua ostinazione convince Knight a lasciargli investire la cifra generalmente spalmata su tre giovani atleti (così da minimizzare i rischi) in un unico testimonial, la star di una squadra universitaria del North Carolina che si chiama Michael Jordan.

Affleck dirige l’interazione degli attori, gli scambi dei punti di vista e delle battute, come il palleggio rilassato su un court metropolitano, in un pomeriggio d’estate. Insieme a lui e a Damon (affiatati come ai tempi di Will Hunting), Jason Bateman (il direttore del marketing) e Chris Tucker (il responsabile del settore) si uniscono al gioco, e gran parte del piacere del film sta in quei passaggi sicuri, tranquilli – privi di istrionismi, vivacizzati qua e là dall’ombra di una strizzatina d’occhio. «Guarda come è rilassato Michael. È sicuro di sé. Non si agita. Aspetta solo la palla» dice a un certo punto Sonny mostrando a un collega un cesto perfetto del giovane Jordan. E il mood del film è un po’ quello. La creazione della scarpa magica con cui sedurre il giovane giocatore (la strada è in salita: lui è un fan di Adidas e delle Mercedes decappottabili rosso fuoco) è investita di una mistica da laboratorio del bondiano Q.

DALL’ALTRA PARTE del telefono, Chris Messina, nei panni di David Falk, l’agente di Jordan, provvede la giusta dose di «sopra le righe». Mentre Viola Davis (voluta da Michael Jordan stesso per interpretare sua madre) è la fantastica sfinge a cui si deve il lieto fine di questa avventura di leggenda sportiva e capitalismo buono, un bromance, corredato di storica postilla del contratto, per cui Jordan avrà – vita natural durante – una percentuale su tutto ciò che esce con il marchio Air, non solo le scarpe. Dietro alla macchina da presa Affleck, come già in The Town e Argo, sfoggia una capacità naturale del racconto. Le sue immagini sono ruvide e confortevolmente demodé. Il pubblico (molti giovani) esce dalla sala ridendo, contento, sollevato. Come calzando un fiammante paio di Air. Anche il sollievo è ormai vintage.