Aillaud, il maoista che amava le bestie
Alias Domenica

Aillaud, il maoista che amava le bestie

Gilles Aillaud, "Cage aux lions", 1967, T&C collection, courtesy galerie Loevenbruck, Parigi

A Parigi, Centre Pompidou, "Gilles Aillaud. Animal politique", a cura di Didier Ottinger I leoni, i coccodrilli, le manguste, nel segno di Foucault; in gabbia, come l’umano in un commissariato

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 29 ottobre 2023

«Nel meteorite stesso,/ tessuto di giorno,/ molto vicino alla carlinga/ del volatile/ è il pidocchio, come un bullone/ trasportato intorno alla terra/ lontano da tutto,// lì dove il cuore in panne/ sussurra/ penando/ per non perdere gli altri». È questa una poesia che il pittore parigino (ma anche poeta, saggista, drammaturgo e scenografo) Gilles Aillaud (1928-2005) ha scritto sulla meccanica della migrazione animale.

Del resto è lui stesso ad affermare: «Tous les poètes sont des animaux». E non bisogna dimenticare, per un artista così complesso, l’aristotelico homo animal rationale o zoon politikon: Didier Ottinger ci ricorda infatti che Aillaud avrebbe voluto dedicare la propria vita alla filosofia, facendone mestiere di insegnamento, ma che all’École normale supérieure un puntiglioso Maurice Merleau-Ponty ne avrebbe arrestato il percorso.

Negli imperscrutabili giochi del destino dobbiamo forse ringraziare l’esaminatore per averci donato più di un filosofo: un artista pensante. Un pittore che per certi versi è stato, nel periodo di contestazione giovanile, quando dal 1965 al 1969 dirige il Salon de la Jeune Peinture, a torto o a ragione, la spina nel fianco non solo di tante correnti artistiche coeve, dell’astrattismo come della pop art americana (si pensi all’opera collettiva scandalosamente violenta contro Marcel Duchamp, in cui l’artista viene malmenato come per rigettarne simbolicamente il suo modello à la page di concettualità e soggettività trionfante). Ma è stato anche pungolo per alcuni pensatori. Si pensi a La Datcha, l’opera collettiva in cui Aillaud, insieme con Eduardo Arroyo, Francis Biras, Lucio Fanti et Fabio Rieti, rappresenta Althusser, Lévi-Strauss, Lacan, Foucault e Barthes mentre ascoltano alla radio, da una certa comodità salottiera, le agitazioni del maggio operaio e studentesco, in fondo tacciandoli di restare inoperosi, bloccati nei propri privilegi borghesi, mentre fuori le proteste incalzano. Ma qui è utile ricordare, ad esempio, che un paio di anni più tardi Foucault entra in azione portando la voce dei carcerati nello spazio pubblico, uscendo quindi dalla comfort zone teorica per creare il GIP (Gruppo di informazione sulle prigioni).

Gilles Aillaud, “Lion”, litografia dall’”Encyclopédie de tous les animaux y compris les minéraux”, Édition Atelier Franck Bordas, 1988

In fondo, come non pensare a Sorvegliare e punire quando Aillaud dipinge gli animali in gabbia? E sebbene la dimensione scopica, panoptica del potere, smontata dall’acume foucaultiano in tutte le sue dinamiche di controllo e coercizione, inducano a trovare nello zoo un perfetto equivalente, non bisogna restringere il campo ermeneutico.
Più volte interrogato sul senso della serie sugli animali, Aillaud tiene comunque a ribadire che non vanno rinchiuse in significati granitici le sue opere, e che, come Rimbaud scrisse alla madre a proposito del significato di Une saison en enfer, le opere vanno osservate «littéralement et dans tous les sens». Anche se poi sarà lui stesso, negli anni novanta, a precisare il legame tra i suoi dipinti di animali e il contesto sociale che li ha visti nascere: «Quando gli animali sono rinchiusi in un ambiente come lo zoo (…) appare la più grande contraddizione, ed è lì che tutto si denuncia. Mostruosità del vivente in un luogo simile. Come l’umano in un commissariato».

Oggi è eminentemente la questione politica ciò che vuole mostrare, fino al 26 febbraio 2024, l’esposizione al Centre Pompidou Gilles Aillaud Animal politique, curata da Didier Ottinger (che ha diretto anche il catalogo dell’esposizione insieme a Marie Sarré, pp. 192, 150 illustrazioni, e 35,00). Aillaud dipinge le sue opere con colori freddi, mantenendo un’aperta e inquieta tensione tra natura e cultura, libertà e coercizione. Questa contraddizione in atto, questo coesistere di opposizioni, il polemos di chiuso e aperto, di dentro e fuori, di mortifera razionalità e proiezione naturale, è un altro tassello filosofico, quello eracliteo, caro all’artista. Gli animali sono colti negli zoo da diverse angolazioni e in diverse epoche, mostrando anche il mutamento di questi luoghi di cattività. Già tra le opere degli anni sessanta e quelle degli anni settanta si nota una differenza nel modo in cui ne sono concepiti gli ambienti.

Meno gabbie e griglie, più fossati e vetrate, più artificiali frammenti di natura. La dimensione di reclusione diviene così meno visibile, più subliminale, e per certi versi più accettabile. Ma nella sostanza resta la prigionia.

Come non notare la differenza tra Cage aux lions del 1967, in cui due leonesse sono a riposo in uno spazio angusto e artificialmente illuminato dietro le sbarre, e Eau et crocodile del 1971, in cui l’alligatore nuota immerso nei liquidi riflessi di un bacino dall’apparenza naturale? oppure Désert nocturne del 1972 e Mangouste, nuit rouge del 1976, in cui la ricostruzione di frammenti desertici per rettili e manguste è arricchita da illuminotecniche dalle atmosfere perturbanti?

Nelle sue realizzazioni pittoriche Aillaud beneficia di proprie, raramente altrui, fotografie (in alcuni casi Polaroid) e dell’episcopio, che le proietta sulla superficie della tela, permettendogli il realismo altamente descrittivo del suo disegno.

L’artista accede dietro le quinte dei giardini zoologici e sceglie con grande accuratezza le sue angolazioni. Cattura letteralmente lo spettatore, lo avvicina all’animale, lo induce a indugiare su decorazioni ossessive, griglie, ferri, piastrelle di piscine, mosaici, piante esotiche, riflessi, riverberi e frammenti di varia natura. Sembra giocare con lo spazio: talvolta gli animali sono sovradimensionati rispetto ad esso, come in L’Éléphant, del 1971; talaltra paiono nascondersi, e sottrarsi allo sguardo, come in Serpent dans l’eau, del 1967. E in fondo Aillaud mostra sempre la profonda estraneità e imprevedibilità dell’animale, anche di quello più apparentemente ambientato al luogo in cui l’umano lo ha destinato.

A seguito dei viaggi in Africa, in particolare nella savana del Kenya, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, vi è un cambiamento nel modo di dipingere di Aillaud. Come in Girafes del 1989 e Éléphant après la pluie del 1991, gli animali sono ritratti con pennellate leggere, sembrano fondersi nel paesaggio, divenire evanescenti e perfettamente mimetici alla loro selvaggia, naturale libertà. Aillaud conserva verso il mondo animale lo stupore che rende elegiaca la sua pittura dell’età matura, come evocando un paradiso perduto. Les oiseaux du lac Nakuru del 1990 ne è fulgida espressione. La natura vi è celebrata con un sentimento estremo di nostalgia, nel momento di perderla irreparabilmente, vittima di un mondo sottomesso alla legge dello sfruttamento spettacolare e della razionalità utilitaristica.

In mostra vi sono anche 194 disegni che costituiscono i quattro tomi de L’Encyclopédie de tous les animaux y compris les minéraux, realizzata fra il 1988 il 2000, che documenta la lunga collaborazione tra Aillaud e il litografo Franck Bordas, in cui l’artista, durante le sue scoperte africane, realizza ogni giorno l’immagine di un animale diverso, completando il progetto enciclopedico abbozzato nei suoi quaderni d’infanzia. Il tema animale inscrive Aillaud in un’antichissima tradizione che rimonta alle grotte preistoriche di Lascaux. E per quanto la riflessione artistica del francese sia stata segnata da ideologie come il marxismo, il maoismo, l’antimperialismo, alla domanda perché dipinge gli animali, risponde con la più disarmante, intima e soggettiva delle constatazioni: «perché li amo».

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