La messa in scena dell’Aida di Verdi immaginata da Davide Livermore, per il Teatro dell’Opera di Roma, in scena fino al 12 febbraio, parte da intuizioni affascinanti. L’opera inaugurò il teatro dell’opera del Cairo nel 1871, e celebrò anche l’apertura del Canale di Suez. In realtà doveva andare in scena nel 1869, ma Verdi non aveva finito di comporla e fu sostituita dal Rigoletto. La partitura preannuncia già il clima floreale dell’ultimo scorcio del secolo XIX. Bella dunque l’idea di leggere la vicenda con gli occhi dell’esotismo orientale e in particolare egiziano del tempo, attraverso i costumi dei personaggi e gli arredi scenici.

UN MONOLITE prismatico sul quale si leggono numerosi geroglifici, ma che può ricordare anche il Kubrick di 2001 Odissea nello spazio, ci preannuncia, già durante il preludio, la catastrofe finale, il giovane eroe e la sua amante chiusi vivi nella tomba. Ma poi l’oggetto cambia colori, oro, nero, argento, si fa cascata del Nilo, figura degli invasori etiopi, dei guerrieri egizi – chi guarda lo indovini. Inoltre il regista ha voluto assumersi anche il ruolo di coreografo, con il risultato di far vedere movimenti danzanti impacciati, abborracciati, dilettanteschi. Imbarazzante. La più brutta realizzazione mai vista delle danze di Aida. Per il resto gli stessi interpreti appaiono bloccati in movimenti e gesti convenzionali, talora perfino casuali, nonostante l’evidente intenzione di impostare la recitazione a gesti simbolici, che però non trova una vera attuazione. Sul piano musicale, invece, la raffinata partitura trova nella guida di Michele Mariotti una penetrante lettura. Nessuna delle avveniristiche invenzioni timbriche, delle sinuose curve melodiche, dei bellissimi giochi contrappuntistici sfugge alla sua concertazione. Sulla scena il primo cast – sarebbe interessante ascoltare anche il secondo che si alterna al primo – appara impeccabile, anche se da parte di nessun personaggio si possa dire che si ascolti un’interpretazione particolarmente avvincente. Anzi si individuano generalmente una certa fatica e una caratterizzazione poco incisiva.

GREGORY KUNDE, venuto all’ultimo momento a sostituire Fabio Sartori, indisposto, nella parte di Radamès, ha perso qualche smalto. Krassimira Stoyanova, Aida, dipinge con finezza il personaggio, ma senza toccare che raramente quell’intensità emotiva che richiederebbe. Ekaterina Semenchuk, Amneris, è forse chi meglio raffigura il personaggio che interpreta, ma senza tuttavia metterne in rilievo le contraddizioni, le sfumature tra sentimento e ragion di stato o la smodata frenesia di potere. Che è poi il soggetto fondamentale dell’opera: il mondo dei sentimenti schiacciato e sconfitto dalla violenza del potere. Tema verdiano, quanto altri mai. Anche quando il potere è un potere familiare, del padre sulla figlia, per esempio. Corretti, tutti gli altri interpreti, compreso l’Amonasro di Vladimir Stoyanov. Il pubblico decreta comunque generosamente a tutti un successo quasi trionfale.