Visioni

Ai confini fra umano e robot, gioco di specchi per Woodkid

Ai confini fra umano e robot,  gioco di specchi per WoodkidWoodkid

Note sparse Produttore, regista, autore e cantante: il musicista francese torna dopo sette anni con l’album «S16»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 4 novembre 2020

Una frontiera è una linea che disgiunge il noto dall’ignoto, la certezza dall’inquietudine. Cosa può spingere a superarla, quella linea? Forse solo il desiderio eroico e paradossale di abbandonare il noto per l’ignoto, la sicurezza per la paura? Questo sembra domandare, silenziosamente, nel suo secondo disco S16 (Island) Woodkid, un bel geniaccio che molto mancava al mondo della musica. Apocalittica la sua estetica, disegna scenari macabri, iperreali, profondi che coinvolgono sempre altri sensi. Mancava da diversi anni, più o meno dal successo bello e prolungato di The Golden Age del 2013 che ha venduto poco più di 800mila copie nel mondo, nonostante sia stato presente qua e là nel mondo dell’arte, della moda, del cinematografo. Perché Yoann Lemoine è un artista completo: nasce regista di videoclip, poeta dell’audiovisivo, attraverso la moda e poi passa alla musica. La linea la passa più volte.

ANCHE nel disco narra di confini: tra umano e robot, per esempio (Pale Yellow). Nel video c’è un cane robot che ci ricorda l’importanza dell’intelligenza artificiale ma anche i limiti di questa: la mancanza di emozione, il vuoto iperbolico dei sentimenti. Lui li supera e li ha sempre superati, i confini e i limiti. Perché all’utilizzo perfetto della computer graphic e del 3D (già videomaker per Lana Del Rey, Katy Perry, Drake e Rihanna, tanto per citare i più famosi) ha sempre accostato un aspetto fortemente emozionale nella sua calligrafia. Riprova ne è la sua ugola. Un po’ efebo come Chet Baker, un po’ araba fenice come Dave Gahan dei Depeche Mode, un po’ androgino come Antony (per i più attempati anche un po’ Boy George e Marc Almond), sa cantare in maniera intima, profonda. Persino confidenziale.

POCHE TRACCE sulla sua vita, dalla Francia si è trasferito a Los Angeles e poi è tornato in Francia. Come il regista Terrence Malick – uno dei suoi idoli indiscussi – si è lasciato conquistare dalle meraviglie del mondo e corteggiare dalle paure più intime. «Che cos’è che ci fa paura del mondo? Spinto dalla curiosità ho visitato centrali nucleari, piattaforme petrolifere, miniere, complessi industriali. S16, che allude al simbolo chimico e al numero atomico dello zolfo, si ispira in parte a questi scenari», ha raccontato. In Your Likeness narra di un amore finito ma non lo tratta in maniera banale e retorica. Ci dialoga quasi. Anzi, ne approfitta per raccontare di un uomo che non si ama, che è spaventato, dunque incapace di amare gli altri. Forse autobiografico? Chissà. Giunto in prossimità d’un limite estremo, ai bordi del mondo, questo uomo resta attonito: spaesato, lo blocca una mancanza inaspettata di senso. Non c’è più ordine: non attorno a lui, neanche in lui. Come ne esce? Cedendo alle inquietudini, non cercando di contrastarle ma abbandonandosi a esse. Come nel primo singolo Goliath, dove utilizza le macchine industriali per descrivere la follia umana, dove la guerra tra Davide e Golia non si risolve per forza in un vincitore e un vinto.

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