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Ai confini del Giambellino

Ai confini del Giambellinoragazzi al Giambellino – foto di Amanda Viola

Periferie Una visita guidata da Dario Anzani della Cooperativa sociale del quartiere, il problema delle case, le iniziative culturali, i libri

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 25 marzo 2017

Per molti, milanesi compresi, il Giambellino è solo il bar di una vecchia canzone. La scrisse nel 1960 Giorgio Gaber, titolo La ballata del Cerutti. Il Cerutti Gino, biondo, sui vent’anni, ‘fiutava intorno che aria tira/ e non sgobbava mai’. Un randa, diminutivo dialettale di randagio, uno che cerca di arrangiarsi come può. E nella ballata di Gaber, il Gino si arrangia rubando di notte una lambretta, subito pizzicato da una pantera della pula, la polizia, che passava di lì. Di tipi così, allora, il Giambellino ne contava parecchi. Tipi che il quartiere a mezz’ora dalla Madunina, nato operaio e comunista, considerava suoi, ci beveva insieme, ci chiacchierava. E continuava a farlo anche quando i Gino uscivano di galera.
I confini del territorio li traccia Dario Anzani, operatore della Cooperativa Sociale Comunità del Giambellino. Sono la circonvallazione 90-91, piazza Napoli, verso il centro; il Naviglio Grande a sud e il limite amministrativo del Comune a ovest. A nord via Lorenteggio, ma i residenti includono anche via Soderini e il confine occidentale della Zona Sei: Caterina da Forlì, Legioni Romane, Berna, Zurigo, cioè il percorso della linea uno della Metropolitana. L’anno di nascita del Giambellino, cinquantamila residenti, è il 1925, prima area urbanizzata quella delle fabbriche, poi si cominciano a costruire le case di ringhiera. La crescita consistente avviene nell’ultimo dopoguerra. Ed è crescita che porta nuovi accenti in una realtà profondamente locale.
QUARTIERI E DORMITORI
Con il boom economico arrivano, come a Torino, immigrati dal Veneto, dalla Toscana, dal Meridione. Quartiere operaio, dunque. Occorre però una distinzione, sostiene Dario «I quartieri operai di Milano vanno divisi in due tipologie: quelli originari, relativamente uniti alla città come il Giambellino, dove non si avverte così precisa la sensazione di entrare in periferia; quelli recenti come Quarto Oggiaro, Gratosoglio, Ponte Lambro, immensi dormitori tra svincoli autostradali».
La costruzione della linea uno della metropolitana segna il contorno di una zona non lontana dal centro, che la metro avvicina ulteriormente. Nella fascia di verde del Lorenteggio, ‘sottoquartiere’ venuto su alla fine degli anni ’50, si insedia il ceto medio borghese; il quartiere ebraico prende corpo intorno alla scuola di via Sally Mayer. Due aree residenziali a poche centinaia di metri dall’edilizia popolare Aler della via e dalle minuscole villette, ben più che modeste, del cosiddetto Villaggio dei Fiori. Dopo la chiusura delle fabbriche, via Savona diventerà una sfilata di condomini non certo proletari. In questa miscela urbana e sociale il Giambellino rimane operaio e comunista, con il PCI che registra percentuali bulgare di voto e il suo Convitto Rinascita, aperto nel secondo dopoguerra per chi non aveva potuto studiare, che diventa scuola pubblica solo nel 1973.
IL 1970
Proprio i ’70 sono gli anni di una lacerazione violenta e dolorosa. Ricorda Anzani «Allora i luoghi di aggregazione, le parrocchie e le sedi del PCI e di altri partiti, esprimevano una forma di socialità unica, molto mista, rappresentata da un accentuato cattolicesimo di sinistra, da preti scomunicati che condividevano l’eucarestia dentro i vecchi rifugi antiaerei. E i comunisti del Giambellino non erano i comunisti di Milano».
Ma la crisi economica dilaga, negando il posto di lavoro ai proletari della prima generazione post benessere, che pur avendo studiato sono privi di qualunque prospettiva. Non pochi di loro si perdono nell’eroina. Ancora Azani «Via Odazio era nei ’70 la piazza di spaccio più grande d’Europa». Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, il Giambellino diventa protagonista di un marcato attivismo politico, sociale, sportivo, culturale. Il quartiere ne eredita le diverse esperienze e, grazie alla sua densità, riesce a interconnetterle, creando una rete di servizi. Quella stessa rete che nella storia più recente si è misurata e si misura con il fenomeno della frammentazione, così lo definisce Anzani.
Frammentazione, cioè il dissolversi di una vita territoriale fatta di gente che si incontrava nei giardini, negli oratori, si fermava a parlare sotto casa; l’abbandono della spesa al mercato, sostituita dal carrello gigante dei centri commerciali; il dialogo muto e autoreferenziale con il cellulare; la mancanza progressiva di riferimenti che colpisce gli anziani come i giovani. Tutto questo assume una valenza più grave, più evidente, nel meltingpot da sempre anima del Giambellino; genera conflitti tra i diversi gruppi sociali, produce la desertificazione dei legami; allarga la distanza tra chi vive nelle case popolari e chi, tre vie più in là, è proprietario di un appartamento che continua ad aumentare di valore. Che fare? Al quesito di antica memoria risponde il lavoro della Cooperativa Sociale e del Laboratorio di Quartiere, aperto nel 2013. Presenze fondamentali di cui si parla in altra parte di queste pagine, volontariato ben consapevole che sulla strada della ballata di Gaber continuano a passare ogni giorno migliaia di Cerutti Gino. Hanno facce, età, storie, problemi, diversi dal Gino di mezzo secolo fa. Ma sono la gente del Giambellino. Anomala periferia fra le tante di Milano.

LE FABBRICHE SPARITE, GLI ALLOGGI OCCUPATI, IL NUOVO PIANO EDILIZIO, LE INIZIATIVE CULTURALI
Due chilometri e mezzo separano piazza Napoli e piazza Tirana, gli estremi di via Giambellino. Dalla stazione centrale, i mezzi pubblici ti portano lì in mezz’ora, e l’ultimo tratto, via Solari, lo fai a bordo del tram quattordici. Sbirciando dai finestrini i palazzi e i negozi del rettilineo, le strade che lo incrociano, ricavi l’impressione di una dignità e di un ordine urbano che regnano un po’dappertutto. Non è bello, il Giambellino, e forse nessuno, neppure nel 1925, ha mai voluto renderlo tale. Però ci senti un’aria di famiglia, di paesone, che continua a circolare nonostante tutto, aggrappata a un passato ‘corto’, ormai quasi privo di memorie tangibili. Inutile cercare quelle delle fabbriche. Molte affacciavano su via Savona, come la Siry Shamon, lampade per l’Orient Express e scaldabagni. Della Osram, storico marchio di lampadine, rimane la palazzina degli uffici, in attesa di sapere che fine farà. E sempre in via Savona, uno sciagurato intervento ha sepolto gli stabilimenti metalmeccanici Loro Parisini, progettati nel 1956 dall’architetto Caccia Dominioni, sotto le tre, assurde, torri di un complesso residenziale. Prossima vittima illustre il deposito dell’Atm, l’azienda dei trasporti urbani, via Giambellino 121, destinato a trasformarsi in macerie. Se le fabbriche appartengono a un passato senza ritorno, le case popolari, sono nodo del presente difficile da sciogliere, groviglio duro di tensioni. C’è un progetto, si chiama Masterplan, vale novanta milioni di euro e riguarda via Lorenteggio e dintorni. A leggerlo sulla carta, a paragonarlo con lo stato delle cose, somiglia a un’utopia. La somma degli alloggi di proprietà dell’Aler, Azienda Lombarda Edilizia Residenziale (!), ammonta, tra via Lorenteggio, via Giambellino e via Odazio, a duemila e quattrocentocinquanta. Ottocento sono sfitti, con il riscaldamento centralizzato che continua a pompare, oppure occupati abusivamente. Una vera e propria manna per chi non ha un tetto e se ne frega dell’incuria che sgretola e fa crollare i muri, consegna alla fatiscenza i cortili, costringe ad attaccare un cartello sulla porta di casa ‘Prima di sfondare provate a bussare, vi offro un caffè’. Chi cerca un esempio concreto, lo trova al 181 di via Lorenteggio, rappresentazione di un degrado che rende ostico trovare parole per raccontarlo. Occupare è una guerra esangue tra nordafricani, sudamericani, rom, rumeni, italiani. Sullo sfondo l’ombra del racket, per ora di basso cabotaggio. Cos’è il Masterplan lo spiega Veronica Pujia del Sicet, Sindacato Inquilini Casa e Territorio «È un progetto di riqualificazione di Lorenteggio cui si è arrivati grazie alle lotte dei residenti. I fondi provengono in gran parte dall’Unione Europea, insieme a contributi comunali, regionali e nazionali. Riguarderà il complesso di edifici del numero 189 e alcuni altri delle vie limitrofe. Nel primo caso si tratterà, in pratica, di una ricostruzione, tant’è che gli attuali inquilini verranno trasferiti altrove». I novanta milioni di euro includono il recupero di duecento alloggi sfitti, la rimozione dell’amianto nelle strutture; una serie di interventi urbanistici legati alla riprogettazione delle strade, del verde e dell’illuminazione pubblica; una nuova biblioteca, finanziamenti per l’inclusione sociale e la cultura. Sottolinea Veronica «Il Masterplan risponde ai problemi di una parte soltanto del quartiere, tant’è che via Solari ne resterà esclusa». Un passo avanti, dunque. Ma non lungo a sufficienza. Passi in avanti nell’integrare le differenti realtà e recuperare il senso di una quotidianità condivisa, li stanno compiendo da tempo la Cooperativa Sociale Comunità del Giambellino e il Laboratorio di Quartiere. La Cooperativa è nata nel 1979 da don Renato Rebuzzini e da gruppi di volontari. Le aree in cui agisce tramite operatori professionali sono, citandone alcune, dipendenze, reinserimento, minori, intercultura, carcere, accoglienza e rientro di persone in hiv e aids. Le voci educazione e territorio comprendono il progetto Tappeto Giallo, rivolto ai bambini; la scuola di italiano per donne straniere, il Centro di Aggregazione Giovanile. La Casetta Verde di via Odazio è uno dei punti di riferimento del Laboratorio di Quartiere, che ha inaugurato le sue attività quattro anni orsono. Gli spazi e il giardino della Casetta ospitano feste, mostre, eventi, laboratori, tavoli di discussione e di confronto; Scendi c’è il cinema è il titolo – invito alla rassegna estiva di film nei cortili delle case. Poi gli orti in comune, le conferenze, gli spettacoli. Simbolo ‘fisico’ della volontà di rinascita del Giambellino è il Mercato Comunale. Vito, gran maestro del banco della carne di cavallo, ha riunito in consorzio alcuni colleghi mercatali, strappando all’abbandono la struttura di via Lorenteggio. Dentro, insieme ad altri chioschi, c’è la scintillante vetrina delle carni, cucinate e servite nel locale accanto. In una manciata di mesi, la Griglieria di Vito ha guadagnato fama cittadina. Anche una bistecca può salvare il Giambellino.

DUE LIBRI
Due libri sono indispensabili per conoscere e capire la storia più recente del Giambellino, entrambi pubblicati dall’editore milanese Agenzia X. Manolo Morlacchi ha scritto La fuga in avanti. La rivoluzione che non muore. Al collettivo Immaginariesplorazioni, con la cura dello scrittore Marco Philopat, si deve Nella tana del Drago. Anomalie narrative al Giambellino, cui è seguito un film, Entroterra Giambellino.
Nel primo si raccontano le vicende della famiglia Morlacchi, presenza importante nella storia politica del quartiere ma non solo; il secondo, attraverso le testimonianze degli abitanti, spazia, nei luoghi del Cerutti Gino (è a lui che il titolo si riferisce), dalle lotte operaie del dopoguerra agli anni ’90, passando per la rottura del Gruppo Proletario Luglio ’60 con il PCI, la piaga dell’eroina, le Brigate Rosse, la chiusura delle fabbriche negli anni ’80, l’arrivo dei migranti. Si è già detto della lunga egemonia del PCI al Giambellino. Dunque è significativo fermare l’attenzione su due gruppi che, con ben diversi obbiettivi, incrinarono in un caso e sconvolsero nell’altro, le granitiche certezze del partito. Nel 1962, alla sezione Battaglia del Lorenteggio- Giambellino, alcuni militanti aprono un confronto dai toni molto aspri. Lo stalinismo era stato di fatto rinnegato da Nikita Kruscev con il discorso del 1956 al Ventesimo Congresso del PCUS. Il partito italiano aveva chiuso ogni relazione con il comunismo cinese. Decisione irremovibile come la fede nel defunto dittatore.
Il confronto è inutile, e dalla sezione se ne vanno in un centinaio, per fondare il Gruppo Proletario Luglio ’60. Il nome richiama il corteo del 7 luglio 1960 a Reggio Emilia contro il governo Tambroni. La sua polizia spara sugli operai, facendo cinque morti. Isolati in fabbrica dal PCI, i militanti di Luglio ’60 parteciperanno alle occupazioni delle case di via Mac Mahon e impugneranno le molotov negli scontri di piazza. Tra gli scissionisti c’era Dino Morlacchi. Lunga e difficile la storia della sua famiglia, tornata al Giambellino negli anni ’50, dove il patriarca Remo aveva fatto lo smerigliatore alla Bordoni di via Savona, tredici figli fra il 1919 e il 1945 e rifiutato sempre la tessera del fascio. Renzo e Dino entreranno nelle file della Resistenza, per diventare, nel PCI del dopoguerra e della sezione Battaglia, una sorta di trait d’union tra vecchia e nuova generazione comunista. Pierino sceglie, tre decenni dopo, di avvicinarsi alle Brigate Rosse, senza però mai entrarne a far parte in clandestinità. Renato Curcio e Mara Cagol hanno in lui il loro riferimento milanese, e con lui organizzano manifestazioni al Giambellino, bandiere con la stella a cinque punte e armi in pugno. Pierino viene arrestato più volte, l’ultima la notte del primo maggio 1980, mentre dipinge sui muri scritte inneggianti alle BR. Le manette scatteranno nel 2010 anche per Manolo, l’autore di La fuga in avanti, con l’accusa di associazione sovversiva. Quattro mesi di carcere, tre gradi di giudizio, assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’.

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