Paolo Malaguti da sempre identifica la propria scrittura con il nord est italiano: dalle pianure ai paesaggi collinari e montani. Autore con un forte legame territoriale, ma che va inteso come elemento di distinzione e di pratica poetica e non banalmente come un limite. È infatti da questa porzione geografica che Malaguti estrae personaggi e situazioni, e in generale un gusto epico per il racconto e per una forma avvincente di avventura morale.

Se già con Sillabario veneto, omaggiando quale riferimento Goffredo Parise, Malaguti andava a individuare il linguaggio – o meglio ancora il gergo – di una terra certamente non facile e a tratti aspra, con Sul Grappa dopo la vittoria iniziava a dare forma a quei temi e a quelle figure paradigmatiche che segnano da sempre la sua narrativa. Ora con Il Moro della cima (Einaudi, pp. 280 pagine, euro 19,50) rilancia il rapporto biunivoco tra l’essere umano e la natura, questa volta in una montagna nota soprattutto per le tragiche atrocità che vi portò la Grande Guerra.

SE NEL PRECEDENTE Se l’acqua ride il contesto segnava i canali della pianura veneta e le acque della laguna veneziana, qui il riferimento diviene attraverso la montagna la figura di Mario Rigoni Stern che negli ultimi anni, grazie anche e non solo ai movimenti ecologisti, ritorna in tutta la sua profonda attualità. Amato sia dai narratori contemporanei che da molti nuovi e giovani lettori, i cento anni – festeggiati l’anno scorso-, riportano Rigoni Stern molto più al centro della storia della letteratura italiana del Novecento di quanto spesso il lavoro critico ha saputo (o potuto) fare.

È chiaro, non sempre il richiamo a Rigoni Stern trova poi conferma in una narrativa che persiste a vedere il tema della montagna come della guerra quali orpelli per un discorso che poi resta sempre avulso da quello che non è solo un contesto, ma il motivo vero e proprio di una lotta e di una biografia. Malaguti coglie così un personaggio unico, raro (e realmente esistito) quale Agostino Faccin, vero e proprio riferimento epico e figura nodale dell’alpinismo moderno. Attraverso la vita di Agostino Faccin detto il Moro, Malaguti dà forma a una vicenda che attraversa parallelamente la storia dell’inizio Novecento con l’amore per la montagna.

Ed è qui che forse Malaguti coglie più nel segno anche al di là di una costruzione avvincente ed efficace che forza la biografia per portarla a pieno diritto nel romanzesco. Il rapporto con la montagna non è infatti semplicemente l’affetto per il luogo natio o la qualità che si può apprendere nei gesti come nelle pratiche con cui viverla, ma appartiene ad una profondità maggiore, ad una forma di equilibrio tutta diversa fatta di gesti e sguardi e di un gergo aspro e smozzicato che parla direttamente alla neve come alle rocce.

«IL MORO DELLA CIMA» si apre con la morte di Agostino, una morte che coglie di sorpresa la comunità divenendo occasione per il ricordo. Dall’infanzia all’età adulta non passa molto tempo, la misura non sono gli anni, ma l’appartenenza ad un mondo che penetra nel corpo dell’alpinista per farsi gioiosamente cosa unica e inscindibile.

Fa bene Malaguti a utilizzare il Moro quale prisma con cui proiettare la Storia e le sue spesso atroci vicende, perché il Moro, con la sua limpidezza, evidenzia la povertà morale come l’imbarazzo di un mondo che si crede moderno e che, in verità, sembra in grado solo di distruggere il passato senza nemmeno essere capace di immaginare un futuro. Storie che tornano non a caso buone anche cento anni dopo. Malaguti si fa traduttore di una figura emblematica e irripetibile all’interno di un contesto quello della comunità montana e di un luogo, la montagna che ha vissuto negli ultimi cento anni tra le più drammatiche e radicali trasformazioni, o meglio violazioni.

Il corpo della montagna infranto sotto il peso della violenta retorica nazionalista segnerà infatti anche il corpo dei suoi abitanti. Malaguti adopera la lezione di Rigoni Stern, questa volta non riportando l’urgenza di un sentimento che si fa, come un’impronta nella neve, subito letteratura, bensì interpretando con gli strumenti della narrativa un pensiero ecologista e poetico che va protetto quanto diffuso.