Uscito in inglese nel 1993 col titolo A Philosophy of History in Fragments e tradotto in italiano da Laura Boella, Filosofia della storia in frammenti (Castelvecchi, pp. 336, euro 29) è un’opera con cui la filosofa ungherese Ágnes Heller, scomparsa nel 2019, fa una sorta di scommessa: si impegna a smentire la lunga convinzione, legata al postmodernismo e al decostruzionismo, secondo la quale scrivere una filosofia della storia sia compito impossibile. L’autrice affronta questo impegno con la logica del frammento, partendo dal presupposto che sia l’unica strada percorribile, l’unica soluzione che vada oltre la fine dei sistemi e delle grandi narrazioni per restituirci la visione di un percorso lungo, articolato e comunque scandito per sequenze tematiche.

SI PARTE DALL’ESPLORAZIONE della contingenza quale condizione umana: una condizione che viene descritta come inesorabile e reale incompiutezza, e insieme  Heller sonda la concreta possibilità di realizzare la libertà umana, la libertà di scelta dell’individuo morale. «L’incompiutezza del mondo, descritta con toni da tragedia e da commedia, rilancia infatti una libertà umana priva di tratti eroici, dotata del senso del limite e insieme dell’attrazione verso scommesse radicali da compiere nell’esperienza concreta di ciascuno», scrive Laura Boella nella sua prefazione al libro di cui è traduttrice e curatrice.

LA RIFLESSIONE SUL SENSO del vissuto storico è sinonimo di una ricerca che comporta l’interrogativo fondamentale sulle ragioni dell’esistenza e del modo in cui essa viene concepita e portata avanti anche se spesso con una sorta di difetto di realizzazione. Ci ricolleghiamo al disagio e al senso di mancanza, di quella incompiutezza che grava su di noi come individui singoli e parti di un percorso storico comunque accidentato e, appunto, frammentato.

COME CI RAPPORTIAMO al presente e quale collocazione gli diamo, ad esempio, in termini di vissuto storico acquisito? Qui si pone il problema di come interpretare l’immaginazione storica del presente anche su un piano identificativo. La riflessione su questo punto non sembra abbondare di risposte nette e univoche ma porta piuttosto a indicare strade possibili percorrendo le quali si possa stabilire un rapporto con il presente, «accettando di vivere nella contingenza cosmica e sforzandosi di andare oltre». Incombe anche il problema della «verità». Una questione anch’essa di carattere storico, sottolinea Heller, in quanto «ogni verità fa la sua apparizione nel tempo». Spesso quest’ultima è stata messa in relazione con l’atemporalità; ma, soprattutto oggi, abbiamo motivo di chiederci cosa sia vero e cosa no e come porci di fronte a una concezione dell’esistenza che considera la verità come fatto immutabile e non soggetta ad alcun cambiamento. Di fatto, però, noi fatichiamo a inquadrare l’essenza stessa della verità che ci appare, non di rado, come qualcosa di difficilmente afferrabile data forse anche l’immagine frammentata che ne abbiamo.

UNGHERESE di origini ebraiche, in gioventù allieva di György Lukács, Ágnes Heller considera il postmoderno come una visione filosofica che fa parte della modernità più che chiamarsene fuori. «È una prigione, una stazione ferroviaria dove il simbolo della modernità per eccellenza, la locomotiva del progresso, è in partenza verso Auschwitz», verso un’atroce interruzione di civiltà. Evidentemente noi siamo anche questo, ma è più difficile dire cosa siamo «in toto», data anche la nostra frammentarietà. La strada indicata è quella di andare oltre, in una direzione «possibilmente» etica.