Ascoltare una dopo l’altra un’opera giovanile e una tarda di Beethoven è un’esperienza che chiarisce molte idee. Le evidenti differenze stilistiche non attenuano, anzi ribadiscono l’unità della concezione musicale. L’evoluzione, variazione, graduale aumento d’intensità espressiva che acquista il tema dell’Adagio del Secondo Concerto per pianoforte op. 19 percorre un’avventura simile a quella dei due temi dell’Adagio della Nona Sinfonia op. 125. Le due opere sono state eseguite all’ultimo concerto dell’attuale stagione sinfonica. Al pianoforte una intramontabile Martha Argerich. Dirigeva l’israeliano Lahav Shani, al suo debutto nei concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Nell’attesa della mezz’ora causata dal malore di una signora in sala, il primo violino dell’Orchestra, Andrea Obiso, ha regalato al pubblico, entusiasta, un pagina di Bach.

APPLAUDITISSIMA, già all’entrata, Martha Argerich, sembra nutrire per il concerto beethoveniano una speciale predilezione: lo propone frequentemente, tanto che lo si può considerare, ormai, nella sua lunga carriera, un atto di identità interpretativa. Fin dalla prima entrata del pianoforte, dopo la lunga esposizione dell’orchestra, Argerich afferma il carattere inconfondibilmente beethoveniano della partitura. I fondamenti haydniani e mozartiani della concezione sono inconfondibili, ma la loro originale rielaborazione, la ricerca ossessiva di coerenza ritmica da una parte e l’espansione cantabile dall’altra, unite allo sfoggio di un virtuosismo strumentale strabiliante, compiono il miracolo di darcene un’invenzione tutta speciale. È questo virtuosismo, insieme espressivo e di agilità, che la pianista argentina mette in risalto, guadagnandosi applausi frenetici, ritmati.
Insieme al direttore ha concesso un bis a quattro mani: uno splendido Ravel, Ma mère l’Oye, Le jardin Féerique. Seguiva, quindi, la Nona Sinfonia, della quale Lahav Shani ha colto subito i caratteri più peculiari: la complessità armonica, prima di tutto, con quelle prime battute di quinte vuote che cercano una determinazione tonale, la quale arriva solo con l’entrata del fagotto, e, inoltre, la violenza della scansione ritmica dei temi.
A FRONTE di momenti assai intensi, manca forse ancora una visione complessiva della sinfonia, del suo intricato percorso. L’esplosione finale di coro, voci solistiche (Chen Reiss, Okka von der Damerau, Siyabonga Maqungo, Giorgi Manoshvili) e orchestra è stata comunque formidabile.