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«Agàpe», una strana inchiesta sull’amore migrante

«Agàpe», una strana inchiesta sull’amore migrante

Frammenti Domenica alla Sala Troisi a Roma si presenterà un film documentario di Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 24 febbraio 2024

Domani alla Sala Troisi, il cinema di Trastevere che è da tempo sede di interessanti iniziative non solo cinematografiche, si presenterà un film documentario – per meglio dire, il mediometraggio – di Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares, militanti sociali da lungo tempo e di origini etniche complesse. Prodotto con il sostegno di Confronti Kino, premiato al festival del documentario di Firenze, Agàpe è una strana inchiesta svolta tra gli immigrati bloccati nelle isole di Lesbo e Cipro, intervistati su un argomento che solo in apparenza è poco «politico»: l’amore. Memori di un’inchiesta di Pier Paolo Pasolini su questo tema, si sono mossi a Lesbo con tutta l’attenzione possibile alle condizioni di vita dei giovani ivi raccolti, anzi bloccati, ma hanno preferito l’inchiesta alla denuncia, o meglio il documento umano e a vasto raggio a quello meramente politico, che racconta, si spera, episodi transitori, contingenti.

Gli autori hanno chiesto agli intervistati – molti dei quali aventi alle spalle storie dolorose e faticose, e l’incontro/scontro con le grandi difficoltà di una detenzione non dichiarata come tale – non di denunciare la loro situazione, di fatto «carceraria», ma di ragionare su un argomento a molte facce: l’amore. Il greco Agape, o agapé. Che negli intervistati si rivela a più facce: l’amore di coppia o per un’altra persona, l’amore familiare, l’amore-amicizia, l’amore per il proprio paese e per le proprie origini, l’amore per delle idee e per un sogno, e in definitiva l’amore per il prossimo, per ogni prossimo che si incontri e che lo meriti, o nel quale sia possibile riconoscersi.

Totalmente privo di retorica, ma non di messaggio anche se si tratta di un messaggio meno evidente di quello immediatamente politico – il loro film è un’opera di confronto e di speranza, e ha un messaggio, in definitiva, nel quale tutti possono riconoscersi, ma che ci viene da persone bloccate nella loro esperienza di vita, nella loro unica esistenza da condizioni di detenzione o semi-detenzione inerenti alla loro identità di «stranieri», di migranti.

Una passione pacata, non gridata, guida le riflessioni e confessioni degli intervistati, e ci comunica le loro speranze, le loro visioni. Se è frequente vedere documentari retti da una giusta indignazione, ma talora più gridati che argomentati, questo di Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares ha su di essi il vantaggio – semplicemente – della poesia: una poesia che non viene da scelte di un linguaggio convincente e trascinante ma prima ancora da un atteggiamento umano, essenziale.

E il linguaggio che ne scaturisce non è dettato dal bisogno di denunciare, a una pur giusta indignazione, ma da quello di capire e rispettare chi si ha di fronte, cercando nei suoi racconti il suo io più profondo. Anche quando giustificato dalla realtà che si documenta, spesso il film che ne deriva finisce per esprimere più il pensiero dell’intervistatore che quelli degli intervistati, e spinge l’intervistato a vedere con lo sguardo dell’investigatore più che con il proprio, con lo sguardo di chi ha sofferto e soffre in prima persona una dura, talvolta durissima realtà.

Tra i sentimenti di chi investiga e racconta e quelli di chi dice in prima persona la sua pena, e lo fa tra sofferenza e speranza, si avverte in molto cinema documentario contemporaneo una distanza e diversità che qui, nel film di Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares, sembra scomparire grazie al loro rispetto e alla loro adesione all’argomento stesso della loro ricerca, all’amore (agàpe) di un prossimo che soffre ben più di chi lo aiuta a esprimersi e a raccontare.

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