Agamben, scarti di tempo e di parola, aperti, perciò, al possibile
«Oh, storia, oh storia, che cosa sei tu?»: questa domanda rivolta dal profano Ernst al massone Falk nel quinto dialogo dell’Ernst e Falk di Lessing – incentrato sul rapporto tra verità razionale e storicità – apre, in esergo, il nuovo libro di Giorgio Agamben, La lingua che resta Il tempo, la storia, il linguaggio (Einaudi, pp. 150, € 18,50). E alla questione cruciale, relativa alla storia, cioè alla stessa specificità dell’uomo, Agamben risponde richiamandosi a Marc Bloch: la storia è «un concetto essenzialmente cristiano»; ma – aggiunge – è anche, se non soprattutto, il cavallo di Troia col quale la teologia è riuscita far propria la cittadella della ragione.
Ora, il passaggio attraverso cui questa macchina da guerra ha potuto introdursi, per conquistare anche l’antico tempo del mito e ricondurre gli eventi senza scopo al disegno dell’oikonomia divina, è la cronografia.
Più precisamente, se (come ha mostrato Santo Mazzarino) elementi di linearità cronografica erano già presenti nella concezione greca, e una certa circolarità sopravvive nella temporalità cristiana, quest’ultima si distinguerebbe anzitutto per l’«indissolubile congiunzione» della cronologia lineare e dell’economia salvifica, che dona all’elemento cronografico un tenore essenzialmente teologico.
Il disegno teologico
Di più: se è vero che il mondo classico divideva il tempo in due specie risalenti a due diverse famiglie indoeuropee, quella del latino saeculum o del greco chronos e quella del latino aevum o del greco aion, opponendo così il tempo numerabile al tempo vissuto, il tempo in movimento (cronico) al tempo immobile (eterno o eonico), la «prestazione specifica» del cristianesimo consiste piuttosto nell’articolare i due aspetti già riuniti nell’incarnazione. Lo svolgimento numerabile si divide perciò fra l’eschaton e l’epoca precedente la venuta del Cristo, e realizza l’eterno piano della salvezza o di una «economia misteriosa» (Origene) che si rivela tuttavia agli uomini capaci di indagarla.
Cristiana è dunque la stessa nozione di tempo «storico» come oggetto unitario potenzialmente esaminabile e conoscibile nella sua interezza. E se la modernità resta iscritta in questo paradigma, se il tempo è per noi oggetto di una specifica ricerca, ciò avviene appunto perché la «macchina storica» articola ancora chronos e aion proiettando nel puro movimento cronologico un disegno decifrabile. Vige così anche per noi una «differenza escatologica», e se un polo (quello cronologico) oggi chiaramente prevale, l’altro, che sembra scomparso (come accade per l’aion), è invece soltanto rimosso e pronto quindi a riemergere in forme patologiche.
Antichità dell’avvenire
Una forma peculiare di questa «risorgenza del tempo eonico» risulta poi riconoscibile nella nozione di «secolo», dove la mera convenzione numerica tende fatalmente a farsi unità sincronica o epocale: e così nella ridicola pretesa di coloro che, scambiando l’usanza per sostanza, si dichiarano specialisti di un secolo o dell’altro, è ancora il presupposto teologico a giocare facilmente uno dei suoi tiri. D’altro canto, peccheremmo ancora di ingenuità volendo servirci della cronologia come di un semplice e maneggevole supporto: non neutrale bensì teologica è infatti l’utilità stessa dello strumento.
Uscire da questo vicolo cieco, evitare gli inganni o le false alternative che la «macchina storica» non cessa di produrre e di imporci, significa perciò ripensare l’idea di origine: non come un evento che precede e fonda la cronologia, né come un fatto compiuto che le appartiene. In questo senso, la tesi bergsoniana del possibile come proiezione del presente sul passato viene qui ripresa e accostata a due idee fondamentali di Benjamin: quella dell’origine (Ursprung) quale vortice o fonte continua, e quella dell’«ora della conoscibilità» come tensione fra pre- e post-storia (concezione, questa, dell’ultimo Benjamin, ma, potremmo aggiungere, già rintracciabile nella tesi giovanile sul romanticismo tedesco, cioè nella posizione di Novalis secondo cui l’antichità coincide con la sua conoscenza e «gli antichi sono insieme prodotti dell’avvenire e della preistoria»).
L’uomo in eterno divenire
Così tutto storicamente declina e sorge senza sosta, nulla è completo o identico a sé, e nemmeno l’uomo è mai divenuto tale. In uno degli sviluppi più fecondi del libro, Agamben affronta il tema dell’origine dal preciso punto di vista dell’antropogenesi, suggerendo che l’essere storico, cioè mortale e dotato di linguaggio, è un essere che non ha ancora eliminato la propria animalità, né esaurito le possibilità della parola.
Per l’uomo tutto finisce, e proprio perciò la storia non sarà mai completa: rimane sempre uno scarto, si dà sempre un «resto» aperto al possibile.
E così – dopo i capitoli sull’escatologia, sul mundus che legava i vivi e i morti, sulla verità e sul Kairos come arresto del tempo – anche la domanda di Lessing suona ormai diversamente: «”Che cosa resta?” – non come una parcella del passato, ma come qualcosa di nuovo, che sorge per la prima volta e spezza la trama».
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