Quant’è difficile essere genitori, ma quant’è difficile anche essere figli. Specie se l’infanzia si poggia su qualcosa di rotto, su un mito dell’amore già dissolto e forse per questo ancora più forte. Aftersun, esordio della scozzese Charlotte Wells, viene distribuito in alcune sale e su Mubi dopo essere stato presentato alla Semaine de la critique a Cannes e dopo che Wells ha vinto il premio come regista emergente ai Gotham Awards.

IL FILM è ambientato in un resort in Turchia negli anni ’90, dove Callum e Sophie, padre e figlia, passano insieme le vacanze estive. Sophie ha undici anni, ha voglia di vivere e di scoprire, mentre Callum – interpretato dall’ottimo Paul Mescal – è un padre affettuoso ma tormentato. I due trascorrono insieme questo periodo consapevoli che finirà presto e che Sophie poi tornerà a vivere dalla madre in Scozia. È una «bolla» in cui condividono tutto, giornate, pensieri, sensazioni. La regista è bravissima nel tratteggiare un’atmosfera con pochi elementi, nel misto di gioia e tristezza che caratterizza il rapporto tra i due ma anche nel confronto di Sophie con altri ospiti del resort – ragazzi e ragazze coetanei o più grandi. Questi ultimi attirano la ragazzina con il loro modo di essere così disinibito, con una sapienza dell’amore che a lei non appartiene ancora. In Aftersun c’è, infatti, una vera e propria educazione sentimentale che passa anche per le immagini che padre e figlia catturano con la loro videocamera. Ed è proprio la Sophie di molti anni dopo, impegnata a riguardare quei nastri, che chiude il film – forse dopo che il padre non c’è più. Tra le righe di Aftersun c’è il tentativo di ricomporre il puzzle, di cogliere i segnali un tempo sfuggiti, con l’idea che il passato il presente e il futuro siano già da sempre tutti lì, possibilità e allo stesso tempo limite alla crescita e all’individuazione. Come i fantasmi del padre che prendono il sopravvento nella narrazione e che impediscono a Callum di essere pienamente presente e di apprezzare l’amore di Sophie, momenti di dolore che la videocamera non registra ma che rimangono nella memoria.

UN PASSATO da figlio non voluto che ritorna, insieme alla diffusa difficoltà dei nostri tempi di immaginarsi genitori – come se si trattasse sempre di rinunciare a qualcosa, al miraggio di una vita libera che non è mai arrivata. E allora non solo il ruolo sta stretto, ma paradossalmente è il padre ad essere fragile, vicino al baratro, mentre la figlia appare ancorata alla vita con più sicurezza, nonostante il suo «mito» fatichi a corrispondere all’uomo che ha davanti.
È quindi su queste geometrie di vicinanza e lontananza che si costruisce il film, sui non detti e sulle parole, sulle dinamiche umane che, osservate attraverso gli occhi di una ragazzina, chiedono di essere spiegate. Ma è soprattutto un film che riesce a trasmettere l’intimità e la forza del rapporto tra genitore e figlia, grazie anche alla chimica tra Paul Mescal e Franesca Corio, la giovane attrice nei panni di Sophie.
Charlotte Wells si lascia ispirare dall’estetica degli anni ’90 ma senza scadere in uno stereotipato effetto vintage, si concentra su alcuni dettagli per spiegare il tutto, costruisce, con la sceneggiatura pure firmata da lei, personaggi a cui ci si affeziona con facilità. Mettendo in luce come in fondo la felicità era già da sempre a portata di mano – se solo si avesse la forza e la lucidità di fermarsi e afferrarla.