African Head Charge, ascolta il dub dell’altro mondo
Note sparse Dopo dodici anni, con «A Trip to Bolgatanga» torna la nobile famiglia del tribalismo britannico
Note sparse Dopo dodici anni, con «A Trip to Bolgatanga» torna la nobile famiglia del tribalismo britannico
All’epoca di una intervista su queste pagine alcuni anni fa, King Ayisoba aveva tagliato corto: «È stato veloce e molto professionale. Non vedo l’ora di avere il feedback», parlando di alcune registrazioni con Adrian Sherwood. A dire il vero, A Bad Attitude e Never Regret a Day sono state registrate in Ghana con Bonjo Iyabinghi Noah, leader spirituale degli African Head Charge. Proprio in questi giorni, la prestigiosa ON_U Sound di Adrian Sherwood, ha rimesso in orbita, dopo dodici anni dall’ultimo lavoro in studio, questa nobile famiglia del tribalismo sonoro britannico. A Trip To Bolgatanga, descrive la nuova avventura da Ramsgate (base operativa della ON-U Sound) al Bolgatanga, una regione a Nord Est del Ghana da cui proviene il re del kologo, e residenza elettiva – ché lì ha messo su famiglia – di Bonjo. Cordofono tradizionale a due corde della popolazione frafa, il kologo con il suo suono stridente e acidulo, deve essere stato concime per le orecchie di un percussionista come Bonjo.
Un sound alieno e afro-futurista caratterizza «I chant Too» e «Microdosing»
«TUTTI PARLAVANO delle percussioni africane tra i musicisti neri di quel periodo, ma non esisteva di fatto un organico il cui perno fondativo (ideologico e programmatico, ndr) fossero le predette percussioni – osservava Adrian Sherwood in un’intervista, tempo fa – così lo abbiamo creato io e Bonjo, con altri musicisti visionari che ci sono venuti dietro». Il primo disco dell’81, My Life in a Hole of the Ground, percussioni, basso e tastiere cucinate al mixer dallo sciamano bianco, combinava assieme uno stile di vita con l’idea di un’Africa psichedelica mutuata da Brian Eno. «All’inizio mi era parsa una stronzata, ma poi ci ho riflettuto».
Oggi sembra niente, ma in quegli anni solo lui gli stava appresso. Un ragazzo bianco, intento a mixare, in uno scantinato dotato di una risonanza ideale per enfatizzare eco e riverberi, un fantomatico (neo)- dub anglo-giamaicano, ritmi africani, melopee indiane, cornamuse, scacciapensieri, intrecciando minuziosamente strumenti etnici, input digitali, mantra elettronici, con una visione dell’Africa che si sarebbe rivelata proverbiale. Appare un po’ sbrigativo e ingrato il giudizio sul The Guardian che liquida A Trip to Bolgatanga come un disco «too polite», dicasi «molto educato» che fa rima con addomesticato, o mainstream. Visto che a proposito di Passing Clouds scrive «è più Womad che Peter Gabriel in kaftano». A parte il fatto che è stato Peter Gabriel a fondare il Womad, pare che sia l’abito a fare il monaco.
SE PURE FOSSE, semmai Accra Elettronica (Dough Wimbish al basso), con quel beat minimale danzabile e il trattamento dub virato sulla cassa dritta. Bastano le ritualistiche, I Chant Too, Asalatua,e la conclusiva Microdosing, a ribadire l’attitudine di un sound alieno, eterodosso, afro-futurista, prima ancora che l’afrofuturismo fosse concettualizzato come teoria.«Contro l’imperialismo culturale world music», parola di Adrian Sherwood. Che in qualche occasione, si è pure rammaricato, che le sue produzioni non fossero di successo. Ma la dicotomia tra arte e mercato è cosa piuttosto delicata. In fin dei conti, se con un’arte autenticamente in- autentica, si riesce a fare proseliti, è un prestigio che vale molto più dei soldi.
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