In Laguna è distante il rumore delle armi, ma la 18/ma Mostra Internazionale di Architettura s’inaugura sullo sfondo delle guerre in corso in Ucraina, Siria, Yemen. Il più alto rischio di crisi umanitarie, tuttavia, riguarda l’Africa con i conflitti in Congo, Somalia, Etiopia, Sudan.
Gli architetti ucraini dello studio Forma hanno voluto riprodurre in due installazioni le «strutture protettive» (naturali e artificiali) con le quali i loro connazionali tentano di salvarsi. Se non per queste due installazioni i fatti della guerra non interferiscono con la Mostra. Il Padiglione della Russia resta ancora chiuso e probabilmente lo sarà per molto.
Dall’Arsenale fino ai padiglioni dei Giardini, è però diffusa un’energia di cambiamento, anche se ci si domanda come questo potrà mai avvenire senza durature condizioni di pace. In cosa consista poi questo cambiamento l’ha spiegato chiaramente l’architetta e scrittrice ghanese-scozzese Leslye Lokko, curatrice della manifestazione. Si tratta, come fa intuire il titolo The Laboratory of the future, di intraprendere un «processo» per restituire alla storia dell’architettura quella pluralità di trame rimaste sconosciute perché provenienti da quell’unica «voce dominante» dell’Occidente «il cui potere ha ignorato vaste fasce di umanità».

Zao standard architecture, Co-Living Courtyard, installazione

ACCADE COSÌ che per la prima volta si concede il dovuto spazio a quelle «voci» tenute nascoste e native per lo più dall’Africa e dai diversi paesi della diaspora africana. «Voci» tutte appartenenti a practitioner, come la curatrice ha voluto chiamare architetti, urbanisti e attivisti, che ha distribuito in quattro sezioni: Force Majeuere, Dangerous Liaisons, Progetti Speciali, Guests from the Future. A queste se ne aggiungono altre due: Carnival, spazio rivolto a dibattiti, spettacoli e performance, e Biennale College Architettura, ideata per approfondire temi dell’architettura contemporanea con una serie di tutor e la stessa Lokko, fondatrice di due scuole post-laurea quali la Graduate School of Architecture all’Università di Johannesburg e l’African Futures Institute ad Accra.
Era alquanto prevedibile che la Biennale rivolgesse lo sguardo alla realtà urbana dell’Africa e alla sua diaspora. Solo per crescita demografica, l’Africa, nel 2050, varrà quasi il 60% della popolazione mondiale, con circa 2,3 miliardi di persone nella regione subsahariana, a fronte di 1,1 miliardo di oggi, mentre quella dell’Unione Europea scenderà dal 6% attuale al 4%. La dimensione dei numeri gioca un ruolo rilevante nello sviluppo delle città. Il dato che più fa riflettere non è tanto l’irregolare e vertiginoso sviluppo di megalopoli come Lagos, Johannesburg, Kinshasa, Nairobi, Luanda, Dakar, Abidjan, ma il numero di agglomerati urbani che ospitano tra 10mila e 100mila abitanti.
«Costruire una città africana significa costruire una pratica architettonica africana», come spiega l’installazione di Koffi & Diabaté Architects. Nel recente saggio curato da A. Dalbai, P. Meuser, L. Mukasa, Theorising Architecture in Sub-Saharan Africa (Dom Publishers), è ancora meglio precisato questa singolarità.

PER TRADIZIONE l’architettura africana è un linguaggio rituale opposto all’oggettivazione, un linguaggio di risposta climatica, un linguaggio di disponibilità di risorse. C’è chi se ne distanzia per volumi essenziali di raffinata composizione formale, come Adjaye Associates, c’è chi ne resta più fedele, come Atelier masomi.
L’altra premessa da fare riguarda la questione del nostro eurocentrismo culturale e le sue relazioni con il continente africano. Opportuna, quindi, l’iniziativa alla Sala d’armi, curata da Christopher Turner del Victoria and Albert Museum di Londra, dal titolo Modernismo tropicale: Architettura e Potere in Africa occidentale. Vi si racconta dell’architettura dei coniugi Maxwell Fry e Jane Drew e come in Ghana il loro modernismo fu superato con l’indipendenza (1957) che vide il presidente Kwame Nkrumah promuovere lo stile nazionale con gli architetti dell’Europa dell’Est.
C’è da dire inoltre che per l’architettura europea e più in generale per quella occidentale, sarà un compito sempre più impegnativo confrontarsi con le sfide delle ecologie urbane degli altri continenti, involuta com’è tra la piatta adesione ai programmi neoliberisti camuffati da rigenerazione e l’inconcludente evasione nella natura, banalmente addomesticata in habitat artificiali. Non è esagerato affermare che siamo ancora lontani nel raccogliere le vere sfide della contemporaneità: decolonizzazione e decarbonizzazione, questioni tra loro inscindibili e fulcro della kermesse veneziana.

Urko Sanchez, architects Tadjourahd, Gibuti, villaggio sos dei bambini 2014. Foto Javier Callejas Sevilla

PER MEGLIO RENDERSI CONTO della dimensione dei problemi con i quali l’architettura nel futuro si dovrà misurare occorre percorrere la lunga navata delle Corderie dove i temi dello sfruttamento coloniale per le materie prime accosta le installazioni di Grandeza Studio (ferro, gas, petrolio in Australia), Estudio AO (oro in Amazonia), Office 24-7/ Lemon Pebble Architects (diamanti in Sud Africa) e S.Hankey, M. Uweemedimo, J.Weber (gas nel Delta del Niger).
Nell’era dell’«accumulazione globale» le materie prime dovunque continuano ad essere indispensabili generando ingiustizie. Netta è la tesi di Andrés Jacque che indagando l’architettura di fascia «alta» (high-end) di New York sostiene che non esisterebbe senza l’«estrattivismo trasnazionale».
Di segno opposto sono le «contro-azioni» di Kéré Architecture, Zao/standardarchitecture, Flore& Prat Architects finalizzate a un diverso orientamento: empatico con i luoghi e l’uso di tecniche e materiali tradizionali scelti avendo a cuore i valori della socialità e i temi della memoria. In contesti di sfruttamento esasperato le storie di violenze non sono solo quelle rivolte all’ambiente e al paesaggio, quest’ultimo, come in Ucraina, scopriamo ricco di memorie archeologiche (David Wengrow e Elyal Weizman con Forensic Architecture) ma anche verso le diverse comunità.

C’È CHI HA AVUTO il riconoscimento delle sue sofferenze, come a Brixton, dove Gbolade Design Studio illustra il Centro Culturale Lloyd Leon gestito dai discendenti dei lavoratori delle Indie Occidentali, e c’è chi l’attende come i mussulmani nello Xinjiang detenuti nei campi cinesi come testimonia la ricerca di Killing Architects.
Alle comunità vanno dati spazi pubblici di inclusione (Orizzontale), attenzioni e cure anche lì dove appiano disperse.
È nel Padiglione Centrale, però, che ci si rende conto maggiormente del fatto che non c’è luogo del nostro pianeta più ricco di esperimenti sociali, economici e urbanistici che il continente africano: un laboratorio chiave del mondo in divenire essendo l’ultima frontiera del capitalismo e dove il futuro della vita stessa della Terra, come ha scritto Achille Mbembe (Africa in the New Century), potrebbe essere messo in totale discussione.

Aerial View of the Floating Village of Ganvie_2018. Image © Victor Espadas González

LE STORIE «ALTRE» della colonizzazione sono presenti in diversi padiglioni nazionali. In quello del Brasile, si illustra che Brasilia non è stata costruita nel nulla, ma vi vivevano popolazioni indigene, mentre l’Australia svela la realtà delle Queenstown dell’ex impero britannico che hanno sovrascritto i territori aborigeni. Dai Paesi Nordici scopriamo l’archivio Girjegumpi nel villaggio norvegese di Karasjok, che conserva i documenti sulla cultura indigena Sámi e le sue pratiche costruttive, mentre la Gran Bretagna narra la pluralità dell’architettura della diaspora inglese, a lungo negata.
Le proposte per la decolonizzazione non mancano, come dimostrano i progetti esposti nel Padiglione della Catalogna: offrono alternative urbane ai migranti africani dediti al commercio ambulante.
Intorno alla crisi climatica, gli Emirati arabi uniti riscoprono pratiche tradizionali per vivere in ambienti aridi. Tutto ciò stride riguardo le trasformazioni di questa area. Ad esempio, in Arabia Saudita con la fondazione di Neom: le quattro megalopoli nel deserto tra le quali l’ipertecnologica città lineare The Line. Nel Padiglione saudita, tuttavia, si racconta il «buon uso della terra», ma il nostro pensiero va alla tribù Huwaitat e ai suoi tre membri condannati a morte lo scorso anno per difendere, loro sì, la «terra» dal mega progetto. Da queste installazioni si comprendono molto bene le strategie della comunicazione ideate da alcuni paesi per offrire in Laguna una differente immagine di sé.

INTORNO ALLA QUESTIONE della decarbonizzazione sono trattati molteplici i temi. Il Belgio guarda alla sperimentazione del micelio, l’elemento vegetativo dei funghi, per trasformarlo in prodotto per l’edilizia. Gli fanno da contrappunto gli Usa che presentano il preoccupante stato di consumo della plastica con al centro l’industria oil&gas, causa dell’erosione delle ecologie ed economie del mondo. Chissà se nel «2086», l’anno target del Padiglione della Corea, il nostro modo di vivere e di pensare supererà l’«ideologia faustiana» del progresso illimitato.
Di sicuro si dovranno rimettere in discussione molti processi come quelli energivori della produzione di cibo (Spagna) in relazione con il cambiamento climatico. Altre azioni riguarderanno l’ecologia urbana, ovvero la cura dei luoghi e degli edifici, come ci suggerisce la Germania, in altre parole la salvaguardia dei contesti ambientali e la loro storia per favorire la coesione tra gli uomini come simbolicamente i due vicini Padiglioni della Svizzera e del Venezuela dichiarano rimosso il cancello che li divideva. Perché è vero che occorrerà «concepire l’architettura come una creatura vivente» (padiglione del Giappone).
I progetti e le idee non mancano: c’è da confidare solo in fidati practitioner per diffonderle e politici meno cinici per attuarle.

*

LEONI

Dal padiglione del Brasile

La Giuria internazionale della 18/ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, composta da Ippolito Pestellini Laparelli (presidente, Italia); Nora Akawi (Palestina); Thelma Golden (Usa); Tau Tavengwa (Zinbabwe); Izabela Wieczorek (Polonia), ha deliberato i seguenti premi:
Leone d’oro per il miglior padiglione nazionale al Brasile con Terra (Earth). Motivazione, «per una mostra di ricerca e un intervento architettonico che centrano le filosofie e gli immaginari della popolazione indigena e nera verso modi di riparazione».
La menzione speciale è stata attribuita alla Gran Bretagna con Dancing Before the Moon.

Leone d’oro per la migliore partecipazione alla 18/ma Mostra The Laboratory of the Future: Daar, Alessandro Petti e Sandi Hilal, (Stockholm; Bethlehem), Dangerous Liaisons (section), «per il loro impegno di lunga data teso a un profondo coinvolgimento politico con pratiche architettoniche e di apprendimento della decolonizzazione in Palestina e in Europa»; il Leone d’argento per un promettente giovane partecipante è andato a Olalekan Jeyifous.
La Giuria ha inoltre deciso di assegnare tre menzioni speciali: Twenty Nine Studio / Sammy Baloji (Brussels, Belgium); Wolff Architects (Cape Town, Republic of South Africa); Thandi Loewenson (London, Uk) . È stato inoltre attribuito a Demas Nwoko, artista, designer e architetto nigeriano, il Leone d’oro alla carriera

SCHEDA

Ghana, visti negati dall’ambasciata italiana

Prima ancora del vernissage ufficiale, in Laguna è polemica: tre collaboratori della curatrice Lesley Lokko di questa XVIII/ma edizione della Biennale di architettura non hanno avuto il visto dall’ambasciata italiana in Ghana con la motivazione «giovani inessenziali in Europa». «Ho raccolto fondi e chiamato a collaborare diverse persone affinché quattro team lavorassero alla Biennale, ad Accra, Dublino, Johannesburg e Londra. Ogni squadra è stata centrale per questa mostra», ha affermato Lokko, promettendo battaglia. La Farnesina ha risposto che i richiedenti erano sei ma non tutti soddisfacevano la «normativa» con i loro requisiti. Così la mostra, interamente dedicata all’Africa e alle sue progettazioni sul territorio, sociali e ambientali vive il paradosso di non poter far entrare le persone provenienti da quel paese.