Internazionale

Afghanistan, Mullah Baradar sarà il capo-negoziatore talebano

Afghanistan I Talebani fanno sul serio. Al termine del quarto giorno di colloqui a Doha tra turbanti neri e l’inviato degli Stati Uniti Zalmay Khalilzad, arriva un annuncio clamoroso: mullah Abdul […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 26 gennaio 2019

I Talebani fanno sul serio. Al termine del quarto giorno di colloqui a Doha tra turbanti neri e l’inviato degli Stati Uniti Zalmay Khalilzad, arriva un annuncio clamoroso: mullah Abdul Ghani Baradar, tra i fondatori del gruppo, già sodale dello storico leader mullah Omar, è nominato capo dell’ufficio Politico di Doha. Sarà lui ora a guidare i colloqui. E mentre da Doha arrivano segnali importanti, il presidente afghano Ashraf Ghani se n’è uscito ieri a Davos con un nuovo bilancio delle vittime tra le forze di sicurezza del suo Paese. Un riferimento al nodo forse tra i più complessi del possibile processo di pace: chi deve trattare con chi.

Ghani, intervenendo al World Economic Forum, ha snocciolato cifre finora tenute nascoste: 28mila uomini uccisi nel solo 2018 e oltre 45mila da quando è presidente (settembre 2014). Ma non si è fermato qui: non solo ha ricordato che le perdite tra gli internazionali ammontano a una settantina, ma ha concluso con una frase non certo sibillina. E cioè che questi numeri indicano “chi davvero sta facendo la guerra”.

Il problema del dialogo inter-afghano, tra ribelli in turbante nero e governo di Kabul, è uno dei nodi sensibili del negoziato con Khalilzad, Special Representative del Dipartimento di Stato. Su quel nodo, ancora nulla di fatto. Ma intanto alcuni punti forti attorno ai quali prendere una decisione – e forse far uscire un comunicato nei prossimi giorni – sono emersi e visto che i colloqui non si sono risolti in poche ore ma han preso giorni, la lunghezza della trattativa, dicono a Kabul, non è che un buon segnale. Si tratta su un’agenda di disimpegno graduale delle truppe (gli Usa hanno 14mila soldati, di cui 8.500 inquadrati nei circa 17mila della Nato), sulle garanzie per un’uscita tranquilla dal Paese, sul taglio di ogni rapporto con al Qaeda, vecchia richiesta degli americani, fondata sull’approssimativa equazione tra Talebani e qaedisti. Il passo successivo dovrebbe essere però una tregua generale e, poi, far sedere allo stesso tavolo solo afghani, non importa quale sia il colore del turbante. Nei giorni scorsi Khalilzad ha cercato di tenere il punto, ossia che ai colloqui di Doha avrebbe dovuto esserci anche chi rappresenta il governo di Kabul. Ma davanti al muro di gomma dei Talebani il diplomatico ha preferito tirar dritto anche senza Ghani. La cosa non è passata inosservata come prova proprio la reazione del presidente a Davos.

La nomina di mullah Baradar è comunque come un segnale positivo. Scegliere un uomo della vecchia guardia come responsabile del “processo di pace” ha un forte valore simbolico. Per i barbuti, che almeno sin dal 2010 si dicono pronti a fare sul serio con il negoziato, investendo ufficialmente su un rappresentante che goda di sufficiente autorevolezza. E per gli americani, che per anni hanno pensato di poter risolvere il conflitto a suon di bombe, e oggi, pur continuando a bombardare, riconoscono che l’uscita dallo stallo passa per il negoziato. Emblematica la vicenda di Baradar.

Arrestato nel febbraio 2010 a Karachi con un’operazione congiunta della Cia e dell’intelligence pachistana, è stato rilasciato lo scorso ottobre dopo 8 anni di carcere, proprio su pressione degli americani, pare. Baradar torna sulla scena in modo inaspettato per gli osservatori. Meno, dunque, per l’inviato speciale Khalilzad, che negli scorsi mesi ha tessuto la tela dei rapporti anche con Islamabad, interlocutore indispensabile per mettere fine alla guerra. Che la guerra finisca presto, sembra difficile. Nel comunicato con cui annunciano la nomina di Baradar, i barbuti spiegano che serve a “rafforzare e gestire in modo appropriato il processo negoziale in corso con gli Usa”, per poi precisare che “sforzi politici e il processo jihadista” procedono insieme. Nessuno sconto. Ma i segnali sul fronte negoziale indicano una possibilità reale, concreta. Non è un caso che l’Unione europea si sia detta pronta, nel caso di un vero accordo di pace, a giocare un ruolo essenziale: quello di garante e mediatore tra le parti.

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