Internazionale

Afghanistan, dopo la guerra perdere la pace

La Nato, e con lei l’Italia come tutti i Paesi della coalizione, la guerra militare in Afghanistan l’hanno persa. Adesso si tratta di non perdere la pace e, tra l’altro, […]

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 20 giugno 2013

La Nato, e con lei l’Italia come tutti i Paesi della coalizione, la guerra militare in Afghanistan l’hanno persa. Adesso si tratta di non perdere la pace e, tra l’altro, anche la faccia. A quel che pare di capire della controversa vicenda dell’apertura dell’ufficio dei talebani in Qatar, gli americani hanno sparato una già acquisita riunione con la guerriglia.

Inevitabile la reazione del governo Karzai che si è sentito delegittimato da possibili colloqui diretti – e questa volta ufficiali – tra Washington e l’Emirato islamico che fa capo a una parte (non certo tutta) della galassia talebana. Per gli americani l’anticipazione serviva forse a rimarcare che nel giorno del passaggio di consegne sulla sicurezza dalla Nato all’autorità afgana, si chiudeva il capitolo guerra per aprire quello negoziale.

Sotto il profilo tattico e propagandistico questa linea non fa una piega (per gli americani) ma non poteva che produrne tantissime nel rapporto con l’alleato Karzai, che considera (giustamente) il negoziato una questione “tra afgani”, non certo eterodiretta da qualche capitale, sia Washington o Islamabad.

Per quanto attanagliato da una corruzione endemica, delegittimato da un’elezione presidenziale gravata da brogli, ancora inefficiente sul piano della governance, dovrebbe essere il governo di Kabul ad avere in mano le redini del processo di pace. Legittimarlo un giorno e il giorno dopo screditarlo, forse fa il gioco tattico di Washington ma non fa quello di Kabul e, a nostro modesto avviso, nemmeno di Berlino o di Roma.

In questi casi è bene affidarsi ai buoni consigli degli afgani (vedi articolo a fianco) quali sono stati quelli che, ieri pomeriggio, una delegazione della società civile afghana ha suggerito in un incontro a Roma al vice presidente della Commissione esteri del Senato, il Pd Paolo Corsini, che li ha ascoltati con molto interesse.

Gli attivisti afghani, non sospettabili di simpatie governative né di amicizie talebane, sono stati chiari su due punti: il primo è il principio di sovranità nazionale e quindi, hanno detto a Corsini, è al governo in carica che spetta condurre il negoziato. Il secondo è che la comunità internazionale può avere un ruolo forte nell’appoggiare quelle istanze che rispettino la Costituzione e cioè i pochi successi acquisiti in tema di libertà di stampa e diritti umani e di genere durante oltre dieci anni di occupazione militare.

Hanno suggerito che l’Italia spinga il governo Karzai a fare quel che finora non ha fatto: cambiare la composizione dell’Alto consiglio di pace, deputato a trattare coi talebani. La polemica è antica: quando fu istituito, i suoi 80 membri furono accusati proprio dagli attivisti di essere vecchie facce in gran parte legate a signori della guerra marcatamente antitalebani che, agli occhi della guerriglia in turbante, non potevano certo apparire super partes: con tale struttura, composta da personaggi che han sempre fatto la guerra, la riconciliazione non può camminare.

Se a questo aggiungiamo il modo in cui gli americani (e i tedeschi, a loro modo francesi e giapponesi e dall’altra parte sauditi, pachistani, catarioti) stanno gestendo la “loro” agenda di pace, la frittata è fatta.

Per uscire dal guado serve una posizione netta: non ingerenza ma debita pressione che raffreddi gli entusiasmi e gli asolo americani, appoggi un processo di pace trasparente e consigli Karzai sulla formazione del Consiglio. Stare a guardare una partita giocata da altri significa, dopo la guerra, perdere anche la pace. E, ovviamente, la faccia.

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