La ricerca storiografica resta sempre aperta a nuovi apporti, a mirate integrazioni, o a messe a punto suggerite dalla maturazione di inedite prospettive. Chi si è occupato di temi o di personalità che continuano a fargli compagnia lungo il corso del suo appassionato lavoro è portato a rivedere onestamente quanto ha scritto, a verificarne la tenuta o ad approfondire le proposte interpretative a suo tempo delineate. Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna alla Normale di Pisa, da qualche anno sta raccogliendo e annotando suoi saggi e volumi fondamentali nel campo, da lui privilegiato fin dall’esordio, delle vicende religiose in Europa e delle controversie tra le «due Riforme», cattolica e protestante. Accostando interventi pubblicati talvolta in introvabili riviste o scomparsi dalla circolazione e inaccessibili a lettori interessati a questioni cruciali, egli dà prova di un’inesausta continuità di impegno, caratterizzata da una scrittura piana e scrupolosa fin nei minimi dettagli, mai eccessiva, utile a capire le origini lontane di quanto è accaduto e accade senza ricorrere a un rumoroso militantismo o improvvisare artificiose comparazioni.

Ed ecco riapparire, con un’introduzione che sostituisce le pagine della prima edizione 1969 (Edizioni di Storia e Letteratura), Tra evangelismo e Controriforma Gian Matteo Giberti (1495-1543) (Aragno, pp. XVI-400, € 30,00): fu l’inizio del fecondo e autorevole cammino accademico di Prosperi, la sua tesi di perfezionamento, discussa nel febbraio ’67 sotto la guida di Armando Saitta e Mario Mirri e l’incitamento generoso di maestri quali Delio Cantimori e Paolo Prodi. È identica nel quadro biografico che traccia di un protagonista degli anni di poco anteriori alla convocazione del Concilio di Trento, percorsi da laceranti tensioni e progetti esplosi da quando Martin Lutero affisse il 31 ottobre 1517 – stando a ciò che si tramanda – le sue 95 tesi sulle indulgenze (e non solo) nella chiesa del castello di Wittenberg. Prosperi nell’ampia monografia non si limitava a soffermarsi su Giberti, rammentato di sfuggita da Lucien Febvre fin dal 1945, ma allargava l’indagine alle rete di relazioni diplomatiche che coltivò e al ruolo eminente ricoperto nei conflitti e nella «lotta politica per la libertà d’Italia».

Sottraeva così la figura esaminata all’immagine semplificante del buon vescovo che gli era stata appiccicata. Nella linea pastorale perseguita a Verona, dove fu a capo delle diocesi dal 1504, Giberti si distinse per l’impulso di divulgazione accordato a una liturgia incentrata sulla predicazione del Vangelo, dando alle stampe nel 1530 un Breve ricordo, cioè uno svelto promemoria, puntigliosamente prescrittivo di letture e comportamenti tesi a esaltare nei parrocchiani il nucleo schiettamente spirituale e pedagogico dell’insegnamento: «ogni festa dichiareno loro lo Evangelio, et insieme, secondo che meglio li parerà, dichiareno loro lo Evangelio…».

Questa insistenza suscitò sospetti di eresia e contribuì a scagliargli contro malevole calunnie. Nonostante godesse dell’appoggio della corte medicea, che gli procurò incarichi di rilievo, non ottenne la porpora cardinalizia, tanto duro fu nei suoi confronti Carlo V. In effetti con un solidale gruppo nel quale primeggiava Gasparo Contarini (1485-1542) Giberti brigava per un’alleanza anti-imperiale. Di passaggio da Firenze s’incontrò con Francesco Guicciardini, come lui contrario al disegno dell’imperatore asburgico di farsi «patrone assoluto» e propugnatore di un governo centralizzato della Chiesa, ma da realista qual era si rese conto che ogni tentativo di opposizione sarebbe stato sbaragliato dalla forza. Non approvò la fuga dall’Italia del senese Bernardino Ochino (1487-1564) col quale pure aveva condiviso timori e speranze e assunse una collocazione che oggi diremmo centrista, ispirata a un riformismo morbido e suadente.

Se abbiamo dato troppo spazio a questo eccezionale vescovo, morto giusto l’anno prima dell’apertura del Concilio, è perché nella sua bifronte azione s’intrecciano la dimensione politica e quella religiosa. Se l’insistenza sui benefici di sistematiche visite pastorali e sulla necessità della residenza in loco ne fece (erroneamente) una sorta di profeta delle direttive che sarebbero scaturite dall’assise tridentina, la diffusione di una solida «fede italiana» è l’altro obiettivo individuato con fermezza. Sulla categoria Prosperi a lungo s’intrattiene da varie angolazioni e ne sintetizza peripezie e successi nel libro gemello, che esce simultaneamente a quello dedicato all’eroe del suo esordio: Vite e idee religiose in Italia nella prima età moderna Ricerche storiche (Aragno, pp. 402, € 30,00). Degli otto saggi che vi sono raccolti conviene scegliere quale avvio l’ultimo, su La fede italiana: geografia e storia. L’inquisitore di Cividale del Friuli interroga un contadino, Biagio di Totulo da Buttinicco, e dopo crude torture gli domanda quale fosse per lui la vera fede: quella italiana o quella luterana? Biagio risponde fingendo sicurezza: «Signori, sempre ho sequitato la vera fede italiana et sempre ho tenuto questa esser perfecta et ogni anno me son confessato, né ho mai manzato carne de zorni quadragesimali, né de vigilie, né venere manco de sabato». Un’abbreviata professio fidei si caricava così di un significato tutto politico, in contrasto netto con quella dei barbari, con l’aggressiva asprezza della «tedesca rabbia» di petrarchesca memoria.

Costruire o ricostruire le consuetudini rituali e le pratiche di una comprovata appartenenza era la missione di una Chiesa immersa nella dinamica dei contrasti che sconvolgevano l’Italia e l’Europa. Assicurare libertà alla Chiesa di Roma era garantire un equilibrio tra poteri che avrebbe impedito l’unificazione statuale, che si sarebbe concretizzata solo se la Chiesa cattolica avesse conservato la sua malcerta indipendenza e avesse arginato pretese totalizzanti straniere: «la libertà era alternativa all’unità» commenta lapidariamente Prosperi. Che, rifacendosi anche a considerazioni del classico suo Tribunali della coscienza Inquisitori, confessori, missionari (Einaudi 1996) mostra come, sia nei processi storici che nello svolgimento della storiografia, si fosse coagulata nelle mentalità profonde e nell’agenda quotidiana, una sensibilità civile nella quale in vario grado la religiosità era asservita alla politica e i gestori del potere politico si servivano del disciplinamento ecclesiale per controllare l’ordine e favorire di fatto le aspirazioni a una difficile unità. Pertanto non desta meraviglia che la base politica del papato sia stata continuativamente italica malgrado le dichiarazioni universalistiche e che l’unicità – quanto effettiva ? – di fede abbia surrogato una non raggiungibile unità costituzionale.

Nell’alternativa tra la lotta all’eresia sostenuta da Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV) e la maturazione laica di uno spirito patriottico condiviso, vinse la linea inquisitoriale del capo del Sant’Uffizio, mentre l’antiveggente modello gibertino conquistò un ascolto limitato. L’interprete più rigido ne fu Carlo Borromeo e l’insediamento più radicato si ebbe in area lombarda. I cristiani in un bilancio d’insieme si trasformarono in fedeli obbedienti a un’autorità centrale. In realtà la penisola era «diversa – afferma Prosperi – quanto diverse erano le sedi del governo vescovile», i cui parametri di valutazione rimandavano però obbligatoriamente ai dettati di Roma.
Abbandonando la complessità dell’analisi offerta dalle due raccolte recenti appena sfogliate, si è spinti a sottolineare quanto il lascito della Chiesa abbia a lungo permeato l’antropologia italiana e quanto abbia influito nella compromissoria adesione a una patria-nazione.

Qualcuno vedrà in controluce persino somiglianze con odierne dispute. «Libera Chiesa in libero Stato», il celebre motto che Cavour mutuò da Charles Forbes de Montalembert, coprì con abile retorica un liberalismo impacciato e dimidiato. La Chiesa aveva prodotto distorsioni che Machiavelli nei Discorsi brutalmente denunciò: «Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo di essere diventati sanza religione e cattivi». Adriano Prosperi lo cita in apertura del suo Una rivoluzione passiva (Einaudi 2022) – ambiguo concetto Cuoco-Gramsci – non tralasciando nell’introduzione Benedetto Croce, che ringraziò la Chiesa, con una benevola dose d’ironia, dopo secoli dalla furia machiavelliana e incamerando i raggiungimenti della Grande Révolution, per aver consegnato al mondo un’Italia «tutta cattolica e disposta a convertirsi tutta, reagendo al clericume, in illuministica, razionalistica e liberale». Giudizio azzeccato o augurio sconfitto?