Adriano Panatta, una vita sotto rete
Intervista La carriera, il cinema, il Cile e la politica, il «manifesto» sotto al braccio: la leggenda del tennis italiano si racconta
Un po’ come i quattro moschettieri del tennis, Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Antonio Zugarelli, hanno segnato l’epoca d’oro di questo sport. Un’era consegnata alla storia in cui si giocava con le racchette di legno mettendoci estro ed eleganza. Questo mondo che non esiste più è stato raccontato nella serie di Sky Una squadra, che ha appena vinto il Nastro d’argento come migliore docu-fiction, diretta da Domenico Procacci (produttore passato per la prima volta dietro la macchina da presa), premiato come miglior regista esordiente. Sei puntate in cui questi campioni – vincitori nel 1976 dell’unica Coppa Davis conquistata dall’Italia in un mitico torneo giocato in Cile sotto la dittatura di Pinochet – si sono confessati senza omettere nulla. Dalle gioie alle liti, dalle vittorie alle sconfitte, dall’amicizia alle incomprensioni, punzecchiandosi spesso a distanza, ciascuno intervistato separatamente. E, oltre a loro, il quinto protagonista non poteva essere che Nicola Pietrangeli, più anziano di quasi vent’anni e loro capitano (non giocatore) dal’76 al ’78, con cui questi ventenni esuberanti sono entrati spesso in collisione.
Quel che ne viene fuori è un ritratto collettivo tanto classico quanto avvincente, che il più delle volte diverte per la forza degli aneddoti, a tratti commuove (come quando si parla di apartheid in Sudafrica o della morte di Bitti Bergamo) e, in alcuni punti, affascina anche chi non capisce nulla di sport o non ama particolarmente il tennis.
Il merito, al di là del regista, va soprattutto agli atleti – che oggi hanno tutti superato i settant’anni – e alla loro capacità di sapersi raccontare con grazia e ironia, ma soprattutto sincerità. Le loro parole sono accompagnate da un’accuratissima ricerca dei materiali di repertorio, il tutto editato da un grande montatore cinematografico quale è Giogiò Franchini: «un fuoriclasse», lo definisce senza mezzi termini Adriano Panatta, sottolineando giustamente come il suo montaggio sia totalmente «autoriale». Le prime due puntate Panatta le ha visionate prima della messa in onda a casa dello scrittore Sandro Veronesi (uno degli autori di Una squadra), mentre le successive le sta guardando – settimana dopo settimana – in televisione, appassionandosi come tutti gli altri spettatori.
Nato a Roma nel 1950, Panatta è stato nel 1976 il tennista numero 4 al mondo, aggiudicandosi in quell’anno gli Internazionali d’Italia e il Roland Garros (dove è stato l’unico a battere il sei volte campione del mondo Bjorn Borg) e conquistando in tutta la sua carriera 10 tornei di circuito maggiore su 26 finali disputate e 18 titoli in doppio (quasi sempre in coppia con Bertolucci) su 28 finali. Si è ritirato dall’attività agonistica nel 1983, restando nell’immaginario collettivo come uno dei più grandi atleti italiani di sempre. L’idea di questa conversazione nasce anche da un episodio che Panatta racconta nella terza puntata della serie: quando era in ritiro durante gli allenamenti si divertiva a provocare il direttore tecnico della squadra Mario Belardinelli (politicamente di destra, tanto che da giovane aveva giocato a tennis persino con Mussolini) mettendogli in bella vista una copia de il manifesto e mandandolo su tutte le furie. Da qui la scusa per fare due chiacchiere su sport, cinema, politica e televisione.
Partiamo dalla serie: hai accettato subito di farla o hai avuto paura di metterti un po’ troppo a nudo?
Quando Domenico Procacci mi ha detto che voleva fare questa cosa ero titubante, perché già avevo parlato abbastanza del Cile e della coppa Davis, ma poi mi ha convinto dicendomi di voler raccontare di noi quattro, dagli esordi a Formia alla creazione di una squadra, fino ai nostri percorsi individuali. Devo dire che trovo vincente la formula adottata: nessuno sapeva cosa aveva (o cosa avrebbe) detto l’altro e credo che alla fine ne sia uscito fuori un lavoro davvero eccellente.
L’episodio del «manifesto» immagino sia autentico. Davvero lo mettevi sul tavolo a colazione per far incazzare Belardinelli?
Mi piaceva fare un po’ di dispetti a Belardinelli, ma bonariamente si intende. Era un nostalgico di destra, però è stata la persona più onesta e perbene che abbia mai conosciuto. E io giudico le persone umanamente, senza farmi condizionare dalle loro idee politiche.
Il tuo essere di sinistra lo hai ereditato da tuo padre, immagino.
Da mio padre e da mio nonno, che sono sempre stati socialisti, parlo del Socialismo di Nenni. Ed era logico che un bambino quando sentiva in casa certi discorsi ne restasse influenzato. Poi si diventa grandi e si ragiona con la propria testa.
In un ambiente come quello del tennis, un po’ altoborghese, forse non era ben vista la tua fede politica.
Non ho mai avuto problemi. Voglio specificare però che non sono mai stato comunista. Quando eravamo juniores, cioè nel 1966-67, andavamo a giocare ogni anno nei paesi dell’Est e io restai abbastanza segnato da quello che vedevo e da quello che mi dicevano i miei avversari coetanei, il cui sogno era quello di venire in Europa occidentale. Mi ha sempre fatto schifo qualsiasi forma di dittatura. Sono stato in quegli anni anche in Argentina e in Sudafrica.
Nella serie parli anche di quella trasferta sudafricana e del fatto che trovavi gli italiani emigrati lì ancora più razzisti.
Tremendo. Dissi al capitano della squadra: non li voglio più vedere questi qui, la prossima volta che mi ci porti mi salta la mosca al naso e ci litigo di brutto.
L’episodio del Cile è il clou della serie. Come è andata davvero quella vicenda?
Le magliette rosse io e Paolo Bertolucci le abbiamo messe perché volevamo dare un segnale di dissenso verso il regime di Pinochet. Ma il rosso era il colore dei fazzoletti che le donne cilene indossavano scendendo in piazza per protestare per la sparizione di mariti, figli e fratelli. Purtroppo quel gesto – che non abbiamo mai pubblicizzato – non ebbe alcuna conseguenza. Insomma, nessuno se ne accorse, neppure Pietrangeli e i nostri compagni se ne accorsero, neppure il presidente della federazione. Mi sono sempre chiesto: se la stampa non scrisse una parola o i giornalisti erano ciechi (e sarebbe grave) o hanno preferito far finta di niente (e sarebbe ancora più grave). Questo episodio è uscito fuori solo quarant’anni dopo, quando una sera, a cena con Calopresti, gli ho raccontato del Cile e lui mi ha detto: facciamoci un film.
Come avete vissuto quegli anni ’70, così difficili politicamente e socialmente?
Sono stati, per certi versi, anni molto belli, penso alla musica, allo spettacolo, ad alcuni personaggi meravigliosi. Ma erano anche gli anni di piombo e c’era un’atmosfera cupa che noi, in parte, percepivamo. Ma ad essere veramente sinceri, noi eravamo spesso all’estero e non c’erano le informazioni di oggi che ti arrivano in tempo reale. Era difficile quando non eri in Italia trovare i giornali, il Corriere arrivava il giorno dopo. Insomma, ci trovavamo un po’ dentro una bolla, isolati dal contesto reale.
Una delle frasi più belle che dici nella serie è «Il talento ha bisogno di tempo», mentre oggi il tennis è solo potenza, portare a casa la vittoria. In fondo lo stesso concetto lo esprimi, in altro modo, anche nel film «La profezia dell’armadillo», dove, in un cameo, interpreti te stesso.
Ci sono vari tipi di talento, quello istintivo, che ti esce fuori subito e si può manifestare in un gesto tecnico, in un’ispirazione. Ma in generale non penso che puoi mettere fretta al talento. Se il papa avesse rotto i coglioni tutti i giorni a Michelangelo, non credo che questo grande artista avrebbe prodotto qualcosa di buono. Il talento ha bisogno di tempo per pensare, per capire. Si tratta anche di un fatto fisico, di percepire delle cose, e quando – se rapportiamo questo concetto al tennis – la palla ti arriva a 220kmh, non puoi fare in tempo a pensare come e dove rispondere. Oggi lo sport è tutto un po’ così, anche il calcio: facendo continuamente pressing inibiscono le soluzioni di fantasia. Nel tennis tirano più forte per via della racchetta e anche dalla preparazione atletica. Gli atleti oggi sono tutti più alti e robusti. Sinner sembra un ragazzo normale ma poi, se lo guardi bene, ha il fisico di un pugile come Monzon.
Ma quello che dici ne «La profezia dell’armadillo» è scritto da te?
No, ma quella parte mi calza bene perché è un concetto filosofico che mi appartiene e, quindi, quelle battute le ho fatte un po’ mie, aggiungendo di personale solo quel «non poi capì…».
Hai interpretato la parte del ciambellano di corte nel film di Veronesi sui moschettieri. Dunque ti piace proprio fare l’attore.
Giovanni mi ha ricattato moralmente: ma come, hai fatto qualcosa con Calopresti e per me non vuoi recitare? Il problema è che io non volevo nessuna acconciatura. Alla fine mi ha costretto a indossare pure quella. Gli ho detto: e mettimi sta parrucca e facciamola finita!
Vorrei approfondire un po’ di più la liaision con il cinema. Sei uno spettatore assiduo?
Sono abbastanza cinefilo, guardo molti film in televisione. Adoro i vecchi film, a cominciare da quelli neorealisti, che ho visto anche tre o quattro volte. Mi piacciono i «filmoni», come li chiamava mia madre. Non ho remore di alcun tipo, posso passare dalla serie Transformers a Caos calmo. Di serie ne ho viste tante durante il covid, una vera e propria indigestione.
Il tuo rapporto con i mass media non deve essere stato facile negli anni in cui eri sotto i riflettori.
Non solo io ma tutta la squadra, abbiamo avuto i giornalisti di tennis contro. Specialmente due soloni come Gianni Clerici e Rino Tommasi. E, a parte qualche rara di eccezione di libertà intellettuale, gli altri si lasciavano influenzare da questi due. Oggi la stampa è molto più ben disposta verso giovani come Berettini e Mosetti. Non dico che all’epoca mia non meritavamo le critiche, ma non ci faceva piacere leggere cose dure scritte con disprezzo e classismo…
Classismo addirittura?
Si, perché eravamo quattro ragazzi provenienti da famiglie modeste: figli di custodi, di ferrovieri, Zugarelli era cresciuto nella strada… Quel tipo di giornalisti, invece, pensava che si potesse essere intelligenti solo con una laurea, mentre sappiamo benissimo quanti coglioni laureati ci sono in giro.
Noi abbiamo sdoganato il tennis dei club, dei circoli un po’ chiusi, luoghi in cui l’italiano medio aveva pudore a entrare perché non si sentiva a proprio agio. Con le nostre vittorie abbiamo contribuito al boom del tennis e tutti hanno iniziato a giocare. Ecco, se c’è un grande merito, al di là delle coppe vinte, è stato rendere il tennis uno sport democratico, per tutti.
Nella serie si vede Gianni Minà darti il tormento durante la partita e poi negli spogliatoi.
Sai con Gianni eravamo molto amici, poi lui si poneva in una certa maniera e onestamente non mi ha dato nessun fastidio. Oggi se provi ad avvicinarti a un giocatore ci sono i body guard che ti sbattono immediatamente fuori dal campo.
Che cos’è l’eleganza per te?
È l’armonia dei colori, dei gesti. Il gioco che facevamo noi all’epoca era elegante. Erano eleganti tennisti come Arthur Ashe (il primo che si è vestito colorato), Tony Roche, gli atleti australiani… Poi sono venuti Borg, Vilas, Solomon e hanno rovinato il concetto di eleganza in campo, inaugurando il tennis «strappato».
Qual è oggi la giornata-tipo di Panatta?
Ogni mattina vado al mio club che ho aperto 6 mesi fa e che mi dà molto da fare: poi partecipo ad eventi, faccio un po’ di televisione. Faccio una vita tranquilla insomma, mi piace andare a cena con gli amici, non amo fare tardi la sera, anche se non faccio certo una vita da eremita.
Da alcuni anni ti sei trasferito a Treviso, ma non ti manca Roma?
È stata una scelta di vita, anche se vengo a Roma più o meno una volta al mese. Voglio bene alla mia città, malgrado gli aspetti negativi, ma ormai sono abituato a girare in bici per Treviso e quindi il traffico romano mi fa un po’ paura…
Quale tennista di oggi ti piace e pensi possa essere in qualche modo un tuo erede, dal punto di vista dello stile, soprattutto.
Non c’è nessuno che mi somiglia perché, come abbiamo detto, noi facevamo un gioco totalmente diverso. Il mio preferito resta Federer, che reputo il miglior tennista di tutti i tempi. Lui riesce a fare delle cose che – io lo so bene – non si possono fare, eppure lui le fa lo stesso e non so come faccia. Mi piace anche Tisitsipas, che ha un gioco più vario. Tra gli italiani Berrettini e Sinner. Il primo è un classico giocatore moderno, somiglia a un australiano di questi tempi. Ha un dritto fenomenale, potente, con un grande servizio. Sinner è invece un talento da fondo campo. Certo, deve migliorare fisicamente poiché è ancora ragazzo, ma se pensiamo che io sono diventato un uomo quando avevo 23-24 anni…
Hai qualche rimpianto ripensando al tuo passato di atleta?
Ti assicuro di no. Ho fatto tanti errori ma avevo pure vent’anni, però credo che non bisogna avere rimpianti se è possibile. Anche adesso ho un carattere impulsivo ma con l’età credo di essere migliorato.
Aver passato buona parte della tua vita professionale sotto rete, osando anche a costo di sbagliare, di perdere, cosa ti ha insegnato nella vita di tutti i giorni?
La cosa più importante è il coraggio, sia nella vita che nello sport. Mi piacciono gli atleti coraggiosi, come dice De Gregori in quella frase de La leva calcistica del ’68 che amo molto, «un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». De Gregori ha segnato la nostra gioventù con le sue canzoni, anzi con le sue poesie e quella frase mi è sempre rimasta impressa perché rispecchia perfettamente il mio pensiero.
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