Visioni

Adriano Aprà, per una teoria della pratica. L’avventura di «Cinema & Film»

Adriano Aprà, per una teoria della pratica. L’avventura di «Cinema & Film»Adriano Aprà e Bernardo Bertolucci a Salsomaggiore nel 1981

Cinema La rivista fondata nel '66, una nuova idea di critica, le idee del '68 inseparabili dall'estetica

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 16 aprile 2024

«Per me il tempo dell’azione è passato. Sono invecchiato. Comincia quello della riflessione». Con queste parole di Godard inizia il primo articolo firmato da Adriano Aprà sulla rivista da lui appena co-fondata «Cinema & Film». Era l’inverno del 1966 e questo nuovo periodico – realizzato grazie all’interessamento di Pasolini che pregò Garzanti di finanziarlo e distribuirlo – gettò un sasso nello stagno della critica e della storiografia cinematografica italiana. Adriano proveniva da «Filmcritica» che aveva lasciato – per dissensi interni – insieme ad altri fuoriusciti, mentre l’altra rivista storica, «Cinema Nuovo», diretta da Guido Aristarco, aveva un modo arcaico e troppo ideologico di riflettere sul cinema. Aprà, insieme agli altri «giovani turchi» del comitato direttivo, tra cui Faccini, Ponzi, Roncoroni (tutti futuri cineasti), seguiva i modelli d’oltralpe cercando di rinnovare il panorama nel segno di una nouvelle critique che – come scrive nell’editoriale – vuole «rischiare la specializzazione e il tecnicismo», approfondendo e ampliando «il lavoro di indagine linguistica ed estetica del film, come entità organica». E, al contempo, «immettere il film nei problemi che il cinema oggi pone, come linguaggio, come mezzo di comunicazione, come arte».

Il fine ultimo della ricerca, concludeva l’editoriale, era di collocare storicamente il cinema nel campo complessivo della cultura. Tra gli altri collaboratori di «Cinema & Film» ricordiamo naturalmente Spila, Menon, Ferrini, De Fornari e Enzo Ungari (con cui Aprà redigerà il volume su tutti i film di Andy Warhol), impegnati con gli altri a redigere cronache dai festival, animare dibattiti e recensire film. Sui primi quattro numeri della rivista, troviamo recensioni che vanno da Missione in Manciuria di Ford a Repulsion di Polanski, da I professionisti di Brooks a Tutte le ore feriscono l’ultima ora uccide di Melville, da A ciascuno il suo di Petri a La contessa di Hong Kong di Chaplin, nonché conversazioni con Kluge, Varda, Rouch, Ferreri, Makaveiev, Robert Kramer. Spazio viene dato agli approfondimenti teorici di autori come Sontag, Jakobson, Metz, Barthes, Panofsky, Adorno ma anche il nostro Emilio Garroni. Se il numero 10 è quasi interamente dedicato a Hitchcock (con una coda in quello successivo), nei numeri 7-8, 9, 10 e 11-12 viene pubblicata in quattro puntate un’attenta ricognizione sul nuovo cinema italiano.

LA RIVOLTA è appena iniziata e, in questa nuova stagione in cui ogni tecnica rimanda a una metafisica (Bazin, i cui saggi saranno tradotti proprio da Aprà per Garzanti), il contenuto non può più essere disgiunto dalla forma, l’ideologia non è nulla senza l’estetica, ma soprattutto la teoria non è separabile dalla pratica, come verrà ribadito nel numero 11-12, uscito nella primavera-estate 1970: «Chiarire il nostro atteggiamento (la nostra posizione) nei confronti del cinema significa mettere in opera la teoria della pratica significante che si compie secondo i modi specifici della scrittura cinematografica». Questo, purtroppo, sarà l’ultimo numero della rivista che, dopo appena 4 anni, chiude i battenti, mentre avrà vita più lunga l’altra rivista rivale «Ombre rosse», i cui artefici erano Goffredo Fofi, Paolo Bertetto e altri, che emulavano soprattutto la francese «Positif».

MA FORSE la più bella dichiarazione critico-teorica da cinéphile militante Aprà l’aveva fatta nel 1968, all’inizio di Satellite, il lungometraggio del suo amico Mario Schifano, leggendo davanti alla macchina da presa una sorta di proclama sui film del futuro: «Cinema di sangue e di rabbia sterminatrice, piani-sequenza che accumulano cadaveri, colori, gag, week-end. Cinema di scambi e di pensieri tra me e te e te: me regista, te attore, te spettatore. Primo vero cinema di parola. ‘La mano che infligge la ferita è anche quello che la guarisce’, ha detto qualcuno. Ecco, tra il cinema della violenza e il cinema della ricostruzione, non voglio, non devo scegliere». Non è forse questo un editoriale di «Cinema & Film» trasposto per il grande schermo? E non è forse questo il modo migliore per ricordare quanto Adriano Aprà abbia contribuito a cambiare il nostro sguardo sul cinema?

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