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«Adriana Lecouvreur», quel luogo unico di rappresentazione del sé

«Adriana Lecouvreur», quel luogo unico di rappresentazione del séUna foto di scena di «Adriana Lecouvreur»

A teatro In scena alla Scala, Maria Agresta è sola nel ruolo che dà il titolo all’opera dopo la fuga di Anna Netrebko

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 marzo 2022

Con Adriana Lecouvreur (1902) di Francesco Cilea prosegue l’esplorazione del teatro d’opera tra Otto e Novecento che la direzione artistica e musicale scaligera ha avviato negli scorsi mesi con Thaïs (1894) di Massenet e La dama di picche (1890) di Cajkovskij e che proseguirà nei mesi a venire con Arianna a Nasso (1912) di Strauss, La Gioconda (1876) di Ponchielli e Fedora (1898) di Giordano. Dalla Parigi della Terza repubblica alla San Pietroburgo imperiale, dalla Milano del neonato Regno d’Italia alla Stoccarda del Secondo Reich, il campionario culturale ed estetico è ampio e variegato: dal tardoromanticismo al parnassianesimo, dal neoclassicismo al verismo al liberty. All’ombra di quest’ultima etichetta, limitante e scomoda come ogni etichetta, si colloca Adriana Lecouvreur, che nell’allestimento in scena fino al 19 marzo, si avvale della regia David Mcvicar (ripresa da Justin Way), con le scene di Charles Edwards, i costumi di Brigitte Reiffenstuel e le coreografie di Andrew George (riprese da Adam Pudney). L’esito è unitario senza essere monotono, tradizionale senza essere pedante, intenso senza essere retorico: al centro di tutto, il teatro (il simulacro della Comédie Française visto da diverse prospettive e sorvegliato da un busto di Molière) inteso come luogo di rappresentazioni fisiche ed interiori, spazio di interazione sociale e messa in scena di sé, contenitore di finzioni e scoperte. Dirige Giampaolo Bisanti, che debutta alla Scala, con grande attenzione ai dettagli floreali della partitura e un’attenzione ancora più grande per gli inneschi, le tenute, le sospensioni e i ritorni delle ineffabili, neobelliniane melodie di Cilea.

LA COMPAGNIA di canto, sebbene funestata dai forfait, è all’altezza di un’opera solo in apparenza facile. Dopo la fuga di Anna Netrebko, travolta dalla prevedibile shitstorm sui social a seguito del suo tentativo improvvido di smarcarsi dalle richieste di prendere le distanze dal guerrafondaio Putin, Maria Agresta è rimasta sola al timone del ruolo che dà il titolo all’opera, facendoci sentire appena la mancanza di un maggior spessore nel registro grave, quello che fa di Adriana una tragédienne, ma padroneggiando tutto il resto con una precisione e un’adesione emotiva sorprendenti (la lacerante «Poveri fiori» vince a mani basse su «Io sono l’umile ancella»). Né Anita Rachvelishvili (a parte una recita) né Elena Zhidkova hanno potuto interpretare la Principessa di Bouillon, lasciando il ruolo a Judit Kutasi, che, come Agresta, sarà pure leggera nelle note basse, ma in quelle alte assesta colpi memorabili. Yusif Eyvazov, marito di Netrebko, resta quasi solo nei panni di Maurizio di Sassonia dopo la disdetta di Freddie De Tommaso, regalandoci ancora, in mezzo a qualche nota centrale un po’ troppo chiara, acuti splendidi. Nel ruolo di Michonnet si alternano i dolenti Alessandro Corbelli e Ambrogio Maestri.

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