Ecco una storia del secolo scorso da leggere e su cui riflettere con attenzione. È così piena di dati, testimonianze, notizie, relazioni societarie, analisi (perfino in numero eccessivo), che richiede tempo, fatica e di certo concentrazione. Ma merita, è istruttiva, una rarità nel suo genere. Si tratta del libro di Anna Ferrando Adelphi Le origini di una casa editrice (1938-1994) (Carocci editore «Frecce», pp. 447, euro 39,00). Una ricostruzione della società editrice. In questo senso innanzi tutto colpisce come l’autrice abbia potuto usare archivi che si trovano nella Fondazione Mondadori, in Apice a Milano, nel fondo Einaudi, in tanti altri fondi privati, come quello della famiglia di Alberto Zevi; ma non quello dell’Adelphi, che sarebbe stato prezioso e forse determinante. Ma evidentemente la casa editrice milanese ancora oggi mantiene riservata la propria storia. Ed è un peccato.
Il libro si concentra soprattutto sul fondatore Luciano Foà – nato nel 1915, morto nel 2005 – e sulle sue lunghe vicende: i progetti, le realizzazioni, i collaboratori, i rapporti economici. Un po’ meno sul sottoposto Roberto Calasso, l’ultimo deus ex machina della casa, scomparso di recente: ma a quanto pare – dopo questo libro lo si può affermare – Calasso nella prima fase di Adelphi, e per anni, fu molto meno decisivo e determinante di Foà, direttore e proprietario (anche se in modo complicato) dal giugno 1962 al 1994: gli anni della fondazione, poi dell’evoluzione e del lancio. Sono vicende che qui scorrono ricche di episodi e soprattutto di autori, via via studiati, talvolta modificati e poi pubblicati; dal 1930, quando Foà lavorava col padre Augusto nell’Agenzia letteraria internazionale (ALI) e poi, grazie al suo notevole rapporto professionale e d’amicizia, con Erich Linder, fino alla morte di quest’ultimo nel 1983, quando era divenuto uno dei più grandi agenti letterari nel mondo. Tutti ebrei, tra l’altro. Ci fu anche il periodo delle leggi razziali, su cui si sa molto poco a proposito dei due Foà, ma essi continuarono comunque a produrre.
Nel dopoguerra, nel 1951, il giovane Foà dall’ALI passò a Giulio Einaudi come segretario generale della casa editrice, per svicolare nel ’61, fino alla fondazione dell’Adelphi l’anno dopo: fu tutta una carriera che gli fornì altri forti rapporti con tanti autori, e soprattutto proprio attraverso Linder; anche se quei rapporti intensi tra un segretario di casa editrice e un agente letterario non apparivano proprio regolari e furono infatti criticati. Era stato anzi tutto complicato: già prima della guerra con il fascismo, ma anche dopo. Per quanto riguarda la presenza nell’Einaudi, alla Ferrando risulta fondamentale per il futuro editore la celebre «collana viola», come si sa progettata da Cesare Pavese ed Ernesto de Martino: erano libri sul mondo magico, l’etnologia, la razza e perfino l’inconscio (il libro di Jung nella «collana viola» era del 1947). Essa ebbe però – è il caso di aggiungere – un serissimo problema persino giuridico con un libro sul cannibalismo, curato e tradotto dall’ex fascista e razzista Lidio Cipriani, che mise contro la casa editrice diversi intellettuali; ma essa fu anche una collana-guida – ora si capisce meglio – per i testi successivi della nuova Adelphi: di Eliade, René Guénon, perfino Elémire Zolla (ma non Evola) e Tolkien, tutti autori della casa editrice, e poi punti di riferimento culturale dell’estrema destra, e sempre passati attraverso lo stesso Foà.
Non invece Leo Frobenius, autore nel 1950 per la «collana viola» di Storia della civiltà africana, testo ripreso da Calasso e dalla casa editrice dopo la morte di Foà, nel 2013: e Frobenius era stato un colonialista totalmente filo imperatore Guglielmo II e autore di un discutibile testo su quella «civiltà africana».Non figura neppure Frantz Fanon, un nero della Martinica, anch’egli psichiatra, fondamentale per lo studio del razzismo anti-nero, e solo in piccola parte pubblicato da Einaudi fino al 1963 (poi in pratica mai più): un uomo-Einaudi come Foà doveva senza dubbio sapere bene chi era Fanon (troppo «politico»?).
Tra i personaggi principali di quel primo Foà, ha ricostruito Ferrando, figurava lo junghiano Ernst Bernhard: un ebreo berlinese mandato dal fascismo in internamento nel 1941, divenuto poi punto di riferimento, anche per la sua tendenza astrologica, di molti intellettuali italiani a partire da Federico Fellini (altro ‘uomo-Adelphi’, il quale avrebbe fatto entrare nella casa editrice Simenon, che così lasciò la Mondadori). E c’era comunque Linder e, insieme con lui, l’uomo suo di fiducia, il fondamentale Roberto Bazlen: sempre in rapporto stretto con Foà fin dai tempi dell’ALI, acuto lettore di libri e psicoanalizzato da Bernhard, Bazlen era un ebreo che aveva in testa la grande cultura mitteleuropea, che egli trasferì a Foà e allo stesso Linder, e così essa diventò uno dei punti di forza della Adelphi (Bazlen morì però nel luglio 1965, pochi giorni dopo Bernhard).
Ma sono molto interessanti anche i finanziatori di Foà/Adelphi, dal 1962 e nei tre decenni successivi, qui studiati con attenzione. Erano industriali e finanzieri, un’altra radice che spiega bene la successiva casa editrice: Alberto Zevi, un imprenditore del mobile che fu uno dei cuori, anche con i figli, della casa editrice; gli Olivetti, con un altro centro, Roberto Olivetti, figlio di Adriano; la famiglia dell’acciaio, Falck, anche qui con un’altra componente fondamentale, la traduttrice Devoto Falck; l’uomo della Banca Commerciale, Mattioli, legato alla famiglia Croce, colui che appoggiò maggiormente la prima «autrice italiana» della casa, la figlia di Benedetto, Elena. In seguito, a partire dal 1971: Carlo Caracciolo e l’avvocato Vittorio Ripa di Meana. Era, nell’insieme, l’imprenditoria settentrionale che appoggiava la sperimentazione di fondo anti-politica di Foà. Ma cos’era questo tentativo? Un’alternativa secca, raffinata e filologicamente seria, all’imprenditoria di massa «stile Mondadori e Rizzoli» e a quella «di sinistra», ovvero l’Einaudi e la Feltrinelli, gli Editori Riuniti e tutte le case editrici che si succedettero negli anni sessanta-settanta.
Gli strumenti principali furono appunto Bazlen e Linder, a cui pian piano vennero affiancati nuovi collaboratori e punti di riferimento culturali: Calasso, Giorgio Colli e Mazzino Montinari per la centrale edizione delle opere dell’«impolitico» per eccellenza, Nietzsche; e Giuseppe Pontiggia, che rimase in casa editrice per anni dal 1964, anche se, in mezzo, con un duro scontro con Calasso per un premio Strega che gli venne negato. E poi mogli, figlie, parenti di vario tipo dei protagonisti, ma sempre donne (si veda un intero capitolo alle pp. 221-250), davvero centrali nella casa editrice: con in più Ingeborg Bachmann, altra figura fondamentale, ma senza parenti. Anche questa presenza femminile fu una novità nell’editoria italiana.
Ed è qui che s’inserisce la lunghissima e complicata storia dei testi che approdarono a questa impresa editoriale. Volle essere anch’essa anti-politica e in sostanza finì per confermarsi proprio contro la cultura della sinistra, emersa in un paese che incominciava a vedere il Pci come un dato ineludibile. Foà era stato comunista, ma aveva lasciato il partito con la rivolta d’Ungheria, come del resto molti di quelli che furono suoi collaboratori. Non ci si sofferma su questi testi e sulle loro sempre rilevanti discussioni: ma le osservazioni di Ferrando sono molte e acute e forse da riprendere nel futuro. Di certo in questo modo si scorge come la lettura in Italia venne issata su nuovi temi preparati da molto tempo, perfino dagli anni trenta, il periodo dell’ALI.

Fu così che in particolare il 1988 risultò un anno decisivo per la Adelphi: grazie a un determinante contributo cattolico e della Democrazia cristiana, che finiva per cancellare in pratica quella cultura di sinistra – Einaudi e i comunisti – che le erano stati nemici. Il 2 settembre il cattolico Ermanno Olmi lanciò alla Biennale di Venezia La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, ristampa appena uscita nella casa editrice milanese. E fu un enorme successo per il film e per il libro. E a dicembre la presidenza del Consiglio – capo del governo era De Mita, suo vice il socialista De Michelis, presidente della Repubblica Cossiga – forniva un inedito e mirabolante Premio della cultura alla casa editrice. Era il successo pieno, rinforzato subito dall’inattesa esplosione sul mercato – e ora molto meglio comprensibile – del libro di Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia. Cambiò letteralmente il ruolo della casa editrice, che divenne un punto di riferimento pubblico, riuscendo a cancellare o a mettere in un angolo le case editrici di sinistra. Era il frutto di una produzione di libri che con gli anni si era evoluta nel prodotto e modificata culturalmente; ma era senza dubbio anche il risultato di un’evoluzione politica – e Ferrando lo sottolinea – di una sinistra di vario genere, che così finiva per andare in malora.
Delle vicende successive infine, colpisce un episodio soprattutto: il durissimo scontro che ci fu tra Foà e Calasso a proposito della pubblicazione, imposta da quest’ultimo proprio nel 1994, dello storico libro dell’antisemita Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza (vedi alle pp. 302-315). Sono le pagine che hanno il supporto dei documenti forniti dagli eredi di Foà e dimostrano come la pubblicazione, voluta a tutti di costi da Calasso, condusse il proprietario ebreo a escludersi dalla casa editrice. Sono pagine molto dure, che bisogna tornare a leggere con attenzione se si vuole capire molto meglio che cosa è stata in seguito (e forse finora?) la Adelphi.