Pauline Kael, che era una sua grande ammiratrice, lo definì (nella recensione di Shampoo, apparsa sul «New Yorker») «un classicista inaffidabile». E, nella decade in cui sono stati realizzati i film per cui lo si ricorda di più, Robert Towne, mancato lunedì, a Los Angeles, all’età di ottantanove anni, portava tra le pieghe del fermento rivoluzionario della Nuova Hollywood un’aura esistenzial/letteraria venata di «vecchio» fatalismo hardboiled.

Chinatown rimane il suo film più famoso e quello dell’Oscar, nel magico triennio in cui Towne firmò le sceneggiature di L’ultima corvé, Shampoo (entrambi diretti da Al Ashby) e del capolavoro di Roman Polanski, lavorando però non accreditato anche ai copioni di Bonnie e Clyde e Easy Rider. Leggendarie, e recentemente riraccontate in un bel libro – The Big Goodbye: Chinatown and the Last Years of Hollywood (2020) – le sue liti con Polanski durante la lavorazione del nerissimo spaccato di corruzione sullo sfondo delle guerre per il controllo dell’acqua nella Los Angeles anni Trenta (la storia era stata ispirata dagli speculazione immobiliare a Benedict Canyon, dove viveva lo scrittore). «Litigavamo ogni giorno, e su tutto», disse Towne al giornalista Peter Biskind, in Easy Rider Raging Bulls. Lui aveva in mente un finale in cui Evelyn Mulvray (Faye Dunaway) si vendicava del padre (John Huston) che l’aveva violentata, e da cui ha avuto una figlia, ammazzandolo. Mentre il regista polacco spinse per una chiusa ancora più cupa, in cui fosse Evelyn a morire e il padre lasciato a crescere il frutto del loro incesto. Anche l’ultima battuta, passata alla storia – «Dimenticatelo Jake. È Chinatown», è attribuita a Polanski.

CIÒ NON TOGLIE che, in una decade di registi star, Towne fosse considerato una star della sceneggiatura. Come i giovani leoni della pagina Walter Hill, John Milius, Francis Coppola e Paul Schrader – ma più sporadicamente e con meno successo – anche Towne provò la via della regia, con Due donne in gara (1982), Tequila Connection (il migliore dei suoi film da regista, 1988), Without Limits (1988) e Chiedi alla polvere (2006). Segno della sua influenza, specialmente in fatto di dialoghi, sono più memorabili i titoli dei progetti a cui ha lavorato senza però apparire nei credits. Oltre a quelli citati sopra, anche La tomba di Ligeia di Roger Corman, Yellow 33, di Jack Nicholson, Il padrino, di Francis Coppola, I nuovi centurioni di Richard Fleischer, Perché un assassinio di Alan Pakula, Missouri di Arthur Penn, Il maratoneta di John Schlesinger, Reds, di Warren Beatty, I duri non ballano di Norman Mailer e Allarme rosso di Tony Scott. Frantic di Polanski, Giorni di tuono e i primi due Mission Impossible sono tra le sue sceneggiature più recenti, insieme a quella del purtroppo sottovalutato sequel di Chinatown, Il grande inganno, un film che Towne stesso voleva dirigere e che, dopo anni di tribolazioni e ritardi, venne invece diretto da Jack Nicholson. Importantissime, per Towne sia l’amicizia che la collaborazione professionale con Nicholson, che aveva conosciuto nel giro dei cormaniani, dopo aver studiato inglese e filosofia presso il californiano Pomona College e aver imparato l’arte della sceneggiatura in serie Tv come Breaking Point e The Outer Limits. Tra gli altri legami importanti, quelli con il produttore Bob Evans e con Warren Beatty. Mentre in tarda carriera, riconoscendo quello che la penna di Towne aveva fatto per grandi attori americani come Beatty e Nicholson, Tom Cruise lo aveva voluto al suo fianco.

«È DIFFICILE scrivere delle sceneggiature efficaci se non c’è uno spazio condiviso con il tuo pubblico – un sistema di valori, un’esperienza, dei miti comuni…È la sfida contro cui lottano gli sceneggiatori di oggi», ha dichiarato Towne a «Variety» qualche mese fa, parlando della frammentazione dell’audience nell’era dello streaming. Nella stessa intervista, rilasciata in occasione del cinquantesimo anniversario di Chinatown, Towne aveva raccontato di essere al lavoro con David Fincher su un prequel di quel film, destinato a diventare una serie Netflix.