Ci ha lasciato martedì all’alba, dopo una malattia di mesi, Marco Maria Gazzano. Aveva 68 anni, era docente di cinema e arti elettroniche a Roma Tre; è stato uno dei più importanti studiosi delle arti elettroniche, pioniere nella loro valorizzazione, organizzatore di mostre che hanno contribuito a far conoscere artisti internazionali.

Per decenni ha coltivato con pacata passione e scrupolo critico i territori di confine e le pratiche artistiche eretiche, guardando all’evoluzione di un paesaggio spesso lasciato in ombra, illuminandone le radici, ricostruendone con pazienza la storia.
Si era formato al cinema con Guido Aristarco, aveva insegnato a Torino e a Urbino, aveva diretto per 12 anni il Festival di videoarte di Locarno, preziosa occasione di visioni e di incontri. Da subito, il suo apporto agli studi cinematografici era stato quello di un’apertura ai dialoghi con altre discipline; anzi, Gazzano era stato fra quegli studiosi che, anche fra incomprensioni e difficoltà, aveva cercato di situare il «video» nell’alveo – e anche nell’ambito accademico – del cinema, quando ancora era oggetto di attenzioni più nell’ambito mass-mediologico, o in quello dell’arte contemporanea o performativa.

Era colto, Marco, in letture, poesia, musiche, estetiche: impermeabile alle mode, immune alle frenesie tecnologiche, anche come docente illuminava le radici del nuovo, con riferimenti raffinati e sapienti alle arti e al pensiero, attuali e del passato, e in particolare alle amate avanguardie storiche e al pensiero utopico.

Era garbato, mite, riservato, attraversato a volte da lampi di malinconica ironia.

Aveva capito, anche, che per sostenere un certo tipo di opere occorreva una «lunga marcia attraverso le istituzioni»: da qui un approccio che lo aveva portato a realizzare programmi per RaiSat, a dirigere il canale satellitare Ars TV network, a rappresentare l’Italia nel Programma europeo Media 1, e che lo induceva a invitare con ammirevole tenacia, in molti suoi convegni e incontri di studio, rappresentanti istituzionali.

CONVINTO della necessità di un sostegno fattivo da parte di chi gestisce decisioni e budget, e fiducioso nella forza di un pensiero artistico lucidamente visionario. Intanto coltivava ricerche e opere, con le mostre e con gli scritti: da Gene Youngblood a Gianni Toti a Robert Cahen, da Mario Sasso a Ida Gerosa, da Steina e Woody Vasulka a Giacomo Verde, Theo Eshetu, Lino Strangis, Marianne Strapatsakis e tanti altri.

Impossibile dire qui di quanti lo piangono, anche all’estero, dagli «Instants Vidéo» a Marsiglia, alla Dundee University in Scozia, al Festival Internacional de la Imagen di Manizales in Colombia (qui e a Bogotà nel 2015 e 16 aveva collaborato a una rassegna dedicata a trent’anni di videoarte italiana, curata dalla moglie, l’artista Adriana Amodei).

Qualche anno fa aveva raccolto in un volumone (Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema) i suoi più diversi interventi: dai brevi testi propositivi o polemici a quelli di taglio storico, teorico e critico, in un vivace e diversificato diario di sguardi e pensieri; ed erano usciti ultimamente anche altri volumi, in particolare su suono e musica nella videoarte (Comporre audio-visioni) e sulle Ultraimmagini, il cinema e la metamorfosi delle arti (Exòrma, Roma). Progettava un libro su Nam June Paik.

ORA LO RICORDO come la prima volta che l’ho visto, a casa di Guido Aristarco a Roma, verso la fine degli anni Ottanta, curvo sulla macchina da scrivere a lavorare a «Cinema Nuovo». Agli inizi di un cammino originale, accidentato e appassionante che ha percorso con generosità e con gentilezza d’altri tempi, e che si è interrotto troppo presto.

Il funerale si svolge stamani alle 11,15 nella chiesa di Santa Maria del Rosario, Via degli Scipioni.