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Addio Camilleri, amico e compagno

Addio Camilleri, amico e compagnoAndrea Camilleri

Il ricordo Nelle sue opere il peggio e il meglio della Sicilia e dei siciliani

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 18 luglio 2019

Andrea Camilleri è morto. Sapevo, dal medico che lo seguiva, che il male che lo aveva colto un mese fa in piena salute e attività, era così grave per cui era molto difficile, anzi quasi impossibile, che potesse riprendere conoscenza e guarire.

Tuttavia, lontano da Roma, ho appreso la notizia con una fitta al cuore.

Volevo bene a Camilleri, per più motivi.

Come scrittore, ha raccontato nelle sue numerose opere la Sicilia e i siciliani, con risvolti che si possono così sintetizzare: c’era il peggio e il meglio, la mafia e l’antimafia (quella vera), l’illegalità come consuetudine e l’impegno di tanti per contrastarla con l’esempio della legalità, non solo quella scritta nei codici, l’ingiustizia come pratica delle classi dirigenti e una evidente rassegnazione, contrastata dalla lotta per la giustizia.

Camilleri racconta quando ragazzo, nel suo paese dell’agrigentino, Porto Empedocle, come tanti era fascista, ammirava Mussolini, ma osservando gli accadimenti sociali e civili della Sicilia contadina e degli zolfatari, e riflettendo su questa realtà diventa antifascista e comunista.

In questa sua biografia politica, raccontata con passione e verità, c’è un pezzo della Sicilia e di una sicilianità che avevo trovato in Sciascia e Guttuso.

Una sicilianità che è il contrario del sicilianismo piagnone, ma la sintesi di una storia che si fonde, si intreccia con i fatti, con il Risorgimento, con l’Italia che diventa nazione, con la Resistenza del comandante Barbato, il siciliano mio compagno e amico Pompeo Colajanni.

Recentemente, quando ascoltavo alla radio o in Tv le intemerate di Camilleri contro il salvinismo, soprattutto per quel che riguarda l’immigrazione, e sentivo la rivendicazione del suo antifascismo e la sua storia di militante comunista, mi commuovevo.

Ormai cieco, vedeva e capiva tutto quel che succedeva nel Paese e nel mondo. E non guardava il passato come un nostalgico, ma come un patrimonio per l’avvenire: diceva che sempre che non era un pessimista, ma un ottimista.

E ancora una volta, come siciliano, tra la rassegnazione e il trasformismo, rivendicava il combattimento per contrapporsi allo stato delle cose, per difendere la libertà, la democrazia e la giustizia sociale.

L’ultima volta che lo incontrai, alcuni mesi fa, mi avvicinai per salutarlo e, cieco, mi disse: chi sei? Risposi: Emanuele Macaluso. Mi abbracciò con forza, baciandomi e dicendomi che non mi vedeva ma sapeva tutto di me e mi voleva bene.

Addio, amico e compagno carissimo.

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