Novantaquattro anni sono un bel tuffo nella storia. Significa portare quasi a compimento il giro di un secolo. A novantaquattro anni s’è n’è andato nella sua casa di Los Angeles Burt Bacharach, una di quelle figure così svettanti, nel mondo delle note che hanno ignorato con scioltezza felina la divaricazione tra «alto» e «basso», che con la sua mancanza faremo i conti per molto tempo. Probabilmente per sempre, perché salterà sempre fuori, dalla porta di servizio della musica, un profilo melodico, un’idea, una canzone di Bacharach. Ce ne sono almeno settanta, da ricordare: fate i conti. Mutatis mutandis, una figura iconica che potremmo accostare a quella di Ennio Morricone: entrambi protagonisti di un secolo così affollato di torsioni epocali, di capovolgimenti di prospettive ideologiche, storiche, di costume, che lo storico Eric Hobsbawm definì, in un suo famoso saggio, Il secolo breve. Breve per la velocità radiante delle innovazioni, breve perché il tumulto, il rincorrersi degli eventi fa quasi svaporare la lentezza del tempo di altri orizzonti antropologici. Il ’900 ha portato in dote al secolo che ora viviamo uno dei più clamorosi rivolgimenti nei consumi culturali che l’umanità abbia conosciuto: il trionfo delle musiche popular. Un piede nella musica folk popolare, uno nel nascente mercato del tempo libero. È questo nodo inestricabile che ha fatto grandi e uniche certe musiche, quando sono state irrorate da un genio melodico come quello di Bacharach.

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TANT’È che, appunto alla soglia del cent’anni, Bacharach era impegnato in questi suoi ultimi giorni assieme all’amico Elvis Costello, una generazione in meno, a scrivere una nuova versione di Painted From Memory, il loro disco assieme del 1998, che aveva sancito un sodalizio di forze creative svettanti, iniziato due anni prima con God Give Me Strenght. Racconta Costello, a proposito del modo di lavorare di Burt Bacharach per intuizioni folgoranti che gli facevano materializzare sui tasti del pianoforte idee semplici, ma memorabili (i brani catchy: quelli che si insinuano in testa e non ti mollano più), che un giorno stavano lavorando assieme a I Still Have That Other Girl. Un brano che si sarebbe acchiappato il Grammy Award del ’98. La canzone non va avanti, Costello è bloccato e guarda fuori dalla finestra. Bacharach mette le mani sul piano e tira fuori un profilo melodico di un’eleganza, racconta, «viennese». Per fortuna il registratore era acceso, ma a risentirla, la melodia è quasi coperta dalle grida di gioia di Costello, allibito da quel fiore sbocciato di colpo. Bacharach era un archivio vivente di sedimentazioni musicali: sotto le sue dita erano passati il cool jazz elegante della West Coast, il Bebop, la misteriosa, complessa leggerezza dei creatori degli standard di Broadway, il Brasile della bossa nova. Aveva cominciato a piazzare hit in classifica nel ’57, con The Story of My Life, Marty Robbins alla voce: ci sarebbe tornato, nei decenni, un’altra ottantina di volte. Con gente come Perry Como, Gene Pitney, Dionne Warwick, che a lui deve un florilegio di successi stellari, B. J. Thomas, con la celeberrima Rain Keeps Falling On My Head, dalla colonna sonora premiatissima di Butch Cassidy and the Sundance Kid. Ora, la pioggia della musica s’è fermata.
Dionne, la musa
Un timbro vocale nasale raffinatissimo e unico: se le melodie senza tempo di Bacharach hanno lasciato il segno, molto lo devono anche alla classe di Dionne Warwick. Cugina di Whitney Houston, nonché sorella di Dee Dee Warwick, l’incontro con Burt è l’alchimia perfetta fra le melodie e la sua voce che riveste evergreen come «Do You Know the Way to San Josè» (per il quale ottennen nel ’68 il suo primo Grammy), passando per «Walk on by», «I Say a Little Prayer», «Alfie». Piogge di Grammy e altre collaborazioni per una carriera che prosegue ancora oggi. S.Cr.