Cultura

Addio al partigiano anarchico Taro

Se dici Carrara, in Italia, dopo il marmo tutti pensano all’anarchia. E le due cose sono legate, visto che fu proprio per le cave che Carrara divenne sinonimo di anarchia: […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 luglio 2015

brigatalucetti

Se dici Carrara, in Italia, dopo il marmo tutti pensano all’anarchia. E le due cose sono legate, visto che fu proprio per le cave che Carrara divenne sinonimo di anarchia: erano infatti beni comuni che appartenevano alle «vicinanze», ovvero alle comunità di montagna, fino a che i privati, col beneplacito delle leggi statali, se ne appropriarono nell’Ottocento. E l’anarchismo trovò terreno fertile tra i cavatori, passati dalla condizione di artigiani a quella più miserevole e sfruttata di salariati, che reclamavano il ritorno alla spartizione di quei beni «privati» alla comunità.

Perciò le Apuane sono sempre state zone ribelli: gli anarchici nell’Ottocento, e poi la Resistenza, in una terra dove passava la Linea Gotica. Un filo rosso che si sarebbe srotolato fino agli anni Settanta, quando sia Massa che Carrara furono tra i centri dove Lotta Continua era più forte. E poiché anarchici e Resistenza formano un connubio identitario fortissimo, il 17 luglio è stato un giorno da ricordare, perché si sono tenuti i funerali dell’ultimo partigiano anarchico di queste terre. Angelo Dolci, conosciuto da tutti come il «Taro», che poi era il suo nome di battaglia. Angelo era salito ai monti a quindici anni, seguendo lo zio Sergio Ravenna, una vocazione ribelle che gli stava nel sangue. Del resto le scuole le aveva fatte solo fino alla seconda media perché aveva tirato un calamaio al professore, e lo avevano sospeso tutto l’anno. Così era andato a lavorare, ma solo per due anni: finché vennero, appunto, i monti, col battaglione anarchico intitolato a quel Gino Lucetti, marmista carrarino, che aveva tentato di attentare alla vita del Duce (com’è noto furono solo gli anarchici a tentare, sempre ahimé con sfortuna, di farlo fuori).

Dopo la guerra per Angelo c’era stata l’emigrazione, e anche questa è una storia comune non solo alle terre apuane: i partigiani, dopo la ricostruzione, erano tornati a essere considerati come «ribelli», e per loro non c’era lavoro. Così l’Olanda, e poi la Germania, per quindici anni. Poi il ritorno a Carrara, e la ripresa dell’attività, al fianco del suo vecchio amico Gogliardo Fiaschi, partigiano a tredici anni, che si era fatto diciassette anni di galera per aver preso le armi contro il regime di Franco seguendo José Facerias. Da quando Gogliardo era morto, nel 2000, Angelo aveva custodito il circolo fondato da Gogliardo, con la sua schiettezza, la sua visceralità, le sue bestemmie che erano una protesta contro il mondo cane, le poche parole ma di quelle buone, come capita spesso agli anarchici. Tra quelle parole, a volte, c’era anche il rimpianto di aver messo giù le armi, dopo la guerra. Non doveva esser finita lì, perché poi hanno ripreso il potere i padroni di sempre. E a Carrara la cosa è ben evidente, con le cave di marmo finite in mano ai privati, col risultato, oggi sotto gli occhi di tutti, di devastare le montagne in nome di megaprofitti intascati dalle grandi imprese, e nemmeno le briciole che restano alla terra apuana, ma solo lo scempio. Quando abbiamo salutato il Taro cantando i canti dell’anarchia, in piazza Alberica (che per gli anarchici continua a essere piazza Lucetti), le montagne le avevamo davanti. E sapevamo che un pezzo di storia, stavolta, se ne andava per sempre. Adesso tocca a noi reinventarne un’altra daccapo.

 

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