Addio a Rykwert, lo studioso che guardava a Leon Battisti Alberti per «fare città»
In un momento nel quale la storia per gli architetti pare di nessuna utilità, anzi un fastidioso ingombro, la morte a novantotto anni dello storico dell’architettura polacco ma naturalizzato britannico, Joseph Rykwert (Varsavia 1926 – Londra 2024) rappresenta non solo la perdita di un prolifico storico dalla solida erudizione, ma anche di un critico attivo che non smise di pensare il futuro della città del XXI secolo.
LE SUE TESI raccolte nel 2000 in The Seduction of Place: The History and Future of the City (trad. Einaudi 2008), sono un dettagliato excursus storico che va dall’analisi del pensiero utopico del XIX secolo ai tempi presenti, dove riflette sui risultati della tecnologia digitale applicata alla realtà urbana popolata da smisurate disuguaglianze sociali. Per questa servono delle alternative, in particolare riguardo gli schemi dominanti del «fare città». Un esempio il Manhattanismo, il modello preferito dai «produttori di forme e immagini», come lui definì gli architetti, i quali assecondano logiche del capitalismo liberista ostacolando così la costruzione di quel «sistema di luoghi», spazi dotati di qualità estetica e simbolica, che per Rykwert significano la «riconquista dell’urbanità».
ALLA CRITICA DELLA CITTÀ contemporanea, «modellata in modo fantasioso e spesso arbitrario», lo storico inglese giunse dopo un lungo periodo di studi e il confronto diretti con personalità della cultura del progetto: da sempre una sua dote. Quando giunge nel 1939 da Varsavia in Inghilterra, fuggendo dai nazisti con la sua famiglia di origine ebraica, l’incontro con Rudolph Wittkower alla Charterhouse School sarà decisivo per indirizzarlo verso la teoria e la storia dell’architettura, che seguirà alla Bartlett School of Architecture, e poi alla Architectural Association.
Dal metodo storico del Warburg Institute di Londra, dove oltre a Wittkower, Rykwert restò influenzato da Edgar Wind, deriva la natura multidisciplinare delle sue incursioni in altri saperi, in particolare l’antropologia, tanto da essere definito l’«antropologo della storia dell’arte».
TESTIMONIANZA di questo suo interesse per la prospettiva antropologica è il saggio The Idea of a Town: The Antropology of Urban Form in Rome, Italy and The Ancient World (1963; trad. Einaudi 1981), nel quale i modelli spaziali sono spiegati sincronicamente nei loro significati mitologici, psicologici e giuridici, giacché la città antica ha altro da esprimere se solo si modificano i criteri con la quale osservarla.
Ancora in On Adams House in Paradise (1972; trad. Adelphi), torna sulla «questione dell’origine» dell’architettura per prendere le distanze dalle narrazioni schematiche e deterministiche, impiegando la cultura materiale e immateriale depositata in altre discipline.
Sulla scia di quello scritto nel 2009 su Interstices, scrisse un articolo dal titolo Adam’s House Again in cui dichiarava che l’abitare contemporaneo soggiace a «una dottrina per incapsulare l’individuo in un mondo di conglomerato hi-techno di stile emirato». Ben altro da un «ritorno a una comunità naturale e organica» come la metafora della casa paradisiaca poteva fare intendere.
ALL’INIZIO DEGLI ANNI ’70, quando diventa insegnante dopo un ultimo periodo da progettista nello studio di Patrick Crooke, avviene l’incontro con Anne Engel, che sposerà nel 1972. Insieme pubblicano Robert and James Adam The Men and the Style (1984; trad. Electa), anticipato da First Moderns: The Architects of the Eighteenth Century (trad. Ed. Comunità 1986). In quest’ultimo saggio Rykwert illustra del XVIII secolo l’avvento della perdita d’autorità dell’architetto, il suo «isolamento» dal mondo dell’edilizia e la riduzione a discutere solo di «problemi di forma». Argomenti che vedrà specchiarsi nel dibattito architettonico degli anni ’70 e ’80, durante i quali ha una presenza diffusa in dibattiti e concorsi nella sua veste di docente del Royal College of Art (1961-68), dell’Università dell’Essex (1968-80) e dell’Università di Cambridge (1968-88), prima di trasferirsi in quella della Pennsylvania (Philadelphia) dove insegnò fino al 1998.
I rapporti di Rykwert con l’Italia furono frequenti fin da giovane studente, quando nel 1949 incontrò Gio Ponti, e tra gli anni ’80 e ’90 divenne un’assidua presenza in Lotus e la Casabella di Gregotti, del quale curò anche la prima monografia (Gregotti Associati 1995). All’Italia lo legava il suo interesse per Leon Battisti Alberti cominciato nel 1955 con le note al De re aedificatoria prima dell’arrivo nel 1989 della sua nuova edizione. Con Robert Tavernor e Anne Engel nel 1994 curerà la mostra mantovana di Palazzo Te sull’opera dell’architetto fiorentino.
DELL’ALBERTI amava citare la metafora che «la città è una grande casa e la casa è una piccola città», ma negli anni del neocapitalismo e non dell’Umanesimo il suo pensiero era rivolto all’assenza di un progetto di società senza il quale «si possono anche realizzare singoli edifici, ma che non creano città».
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