C’è un’immagine indimenticabile che racconta tanto di Piero Gilardi: quando venne raso al suolo un bosco centenario per liberare l’area del cantiere di Chiomonte, l’artista fu avvicinato da una delle «nonne insurrezioniste» NoTAV. Si chiamava Marisa e chiedeva a Gilardi di farle un costume da albero di castagno, per far rivivere una pianta di 260 anni che era stata abbattuta e alla quale lei era molto affezionata. Non era pratica inedita per l’artista, che ci ha lasciati domenica all’età di 80 anni: nel ’66 in occasione di una mostra in cui esponeva i suoi Tappeti-natura aveva presentato un Vestito Betulle, con spezzoni di cortecce indossate da una modella.

Con Gilardi se ne va una grande voce anomala che non ha mai accettato di irrigimentarsi in nessuna delle famiglie del sistema artistico per restare sempre coerentemente attaccato alla scelta, come lui stesso diceva, «di vivere l’arte come processo strutturalmente relazionale», proprio com’era accaduto quel giorno a Chiomonte.

È UNA POSIZIONE VISSUTA sempre con molta creatività e convinzione che lo ha portato a coinvolgersi nelle situazioni più disparate, dove il filo conduttore era quello dell’interrelazione con i protagonisti di quelle stesse situazioni. Aveva la consapevolezza che la «parzialità del soggetto» si potesse riscattare con «l’interazione coevolutiva con gli altri». Voleva assolutamente affrancarsi da una concezione corporativa dell’arte (anche di un’arte che si concepiva anti-sistema), per questo l’esperienza della militanza era una componente decisiva del suo agire. Militanza concepita non come adesione ideologica ma come un «calarsi nel vivo dell’operatività sociale».

«Portare la vita verso l’arte», diceva, e per fare questo secondo lui occorreva andar oltre il limite di un artista di riferimento come Joseph Beuys, che era ultimamente prigioniero di una visione utopica. Per Gilardi invece l’arte o è una pratica o non è; deve essere esperienza di cambiamento nel concreto della vita. «Attraverso la pratica artistica», diceva, «oggi non si producono più forme estetiche ma piuttosto si producono “formazioni” cioè modelli di comportamento e modalità di vita, individuale e collettiva».

Non è una negazione dell’estetica, ma un suo ampliamento in senso etico, un «processo di invenzione di sé», che si fonda sempre nella relazione con un «altro-da-sé». Per questo la parabola artistica di Gilardi è sempre scandita da esperienze che lui definiva di «ibridazione» con mondi altri, come nei casi dell’esperienza negli ospedali psichiatrici torinesi nei primi anni 70, o quella nella scuola indiana della riserva Mowak di Akwesasne nell’83, o quella del Pav, il Parco arte vivente di Torino per citarne due tra le tante.

CERTAMENTE tra le forme di ibridazioni che più hanno segnato la sua vicenda artistica e poetica c’è quella tra arte e natura. «La sua arte è gigantesca, pari al corpo della Terra per importanza oltre che per dimensione», ha scritto Tommaso Trini introducendo La mia biopolitica (Prearo, 2016). «Da mezzo secolo Piero Gilardi ci restituisce Terra a zolle, pezzo a pezzo». Il riferimento è ai Tappeti-natura, quasi un’opera-logo, frammenti di suolo realizzati in poliuretano con colori naturalizzati. Sono opere prodotte in modalità seriale quasi che Gilardi volesse esorcizzare l’incipiente morte della natura, come aveva scritto Ettore Sottsass.

NELLA LORO REITERAZIONE i Tappeti-natura ogni volta hanno la capacità di meravigliare e stupire, per via di quel lato giocoso che li caratterizza, rafforzato dalla loro tattilità e nitidezza formale. Questa sostanziale semplicità convive però con un pensiero articolato che ibrida natura ed artificio, a partire dalla stessa tecnica a cui Gilardi fa ricorso (resina poliuretanica impregnata di pigmento sintetico). L’arte assume così un compito riparativo: e Gilardi non disdegna di piegare allo scopo anche gli strumenti messi a disposizione dalla civiltà tecnologica come le stesse biotecnologie. Procede zolla per zolla secondo una prassi libera e felicemente trasformativa: «arte vivente», nel senso più genuino del termine. Ci mancherà…