Con il suo eloquio calmo, ma non acquiescente, con il suo fare convinto, ma mai indifferente alle opinioni dalle sue divergenti, ma soprattutto con la sua smisurata passione per l’architettura, l’urbanistica e la politica, Paolo Portoghesi, è morto all’età di 92 anni. È stato architetto-intellettuale tenace nel sostenere una revisione delle teorie della modernità. Se con nitidezza, tuttavia, si volle considerarlo negli anni ’60 e ’70 un «dissidente» dell’ortodossia del movimento moderno, forse fu eccessivo definirlo un «velleitario reazionario», come lui stesso ricordava.

SCRISSE nella sua autobiografia Roma/amor (2019) che il suo desiderio all’epoca era «di sbarazzarsi delle inibizioni che avevano impedito alla modernità di spogliarsi delle rigidità intellettualistiche così da rispondere alle speranze e ai sogni di un riavvicinamento tra l’architettura e la vita». A questa aspirazione restò sempre fedele.
Già ai suoi esordi a Roma, la Casa Baldi (1961) fu qualificata da Bruno Zevi «problematica», ma degna di comparire sulla sua rivista proprio per i suoi caratteri radicati al luogo e alla storia. Altrettanto fuori dal canone razionalista-funzionalista sarà Casa Papanice (1967) che già anticipa stilemi del postmodernismo.
Del sodalizio con Zevi restano gli studi sulle opere michelangiolesche: Michelangelo architetto (1964). La loro amicizia s’interruppe nel 1967 per le divergenti interpretazioni su Francesco Borromini, del quale Portoghesi è stato il più profondo conoscitore, riuscendo ancora nel 2019 ad aggiornare e ampliare la sua monografia dell’architetto ticinese pubblicata nel 1967.
La sua prolifica produzione di saggi ha riguardato la storia dell’architettura di Roma (oltre il citato Borromini, Roma Barocca, 1966; Roma nel Rinascimento, 1970) e gli architetti che lui sentiva in qualche modo affini alla sua poetica (Guarino Guarini 1624-1683, 1956; Bernardo Vittone / un architetto tra illuminismo e Rococò, 1966; Victor Horta, 1996).
Un impegno rilevante è stato quello dedicato in un trentennio al confronto culturale come testimoniano i suoi testi teorici (Le inibizioni dell’architettura moderna, 1974) oltre i pamphlet con i quali espose le sue tesi postmoderniste delle quali è stato tra i principali animatori (Dopo l’architettura moderna, 1980).

PORTOGHESI non ha mai disgiunto il suo impegno di storico e di docente, da quello di progettista. In questa direzione ha sempre indagato gli eventi storici per trovarne linfa vitale ai fini della progettazione.  La Moschea con il Centro islamico di Roma (1975-93, con Vittorio Gigliotti e Sami Mousawi) rappresentano l’episodio più emblematico dell’uso della storia. In questo caso furono impiegati modelli e forme del mondo arabo per sostenere il «recupero dei valori della memoria».
Quanto questa operazione abbia avuto detrattori e critici lo testimoniano le parole di Manfredo Tafuri che rilevò che coloro che la storia intendevano recuperare svolsero solo l’«arbitrario diritto di flirtrare con essa, nei più reconditi dei suoi ‘lessici famigliari’». Portoghesi vi rientrava perfettamente.

L’AMPIA CONOSCENZA della cultura islamica gli consentì di progettare il Nuovo Aeroporto di Khartoum e le Residenze dei Reali di Giordania ad Amman e a Venezia di celebrare l’importanza dell’Architettura dei paesi islamici con la II Mostra internazionale di architettura (1982), seguente alla prima esposizione del 1980, La Presenza del Passato, con la celebre e molto discussa Strada Novissima alle Corderia dell’Arsenale dove Portoghesi illustrò il nuovo corso dell’architettura contemporanea con la messa in fila di una serie di facciate disegnate e allestite da un’eterogenea rappresentanza di architetti del Postmodernism. Gli anni ’80 sono quelli del suo «organico» impegno nelle fila del Psi craxiano: considerò sempre, quella socialista, la sua casa politica. Ciò non gli impedì di riflettere criticamente sulla sua militanza a iniziare dal ruolo svolto come Preside del Politecnico nel giugno del 1971 in difesa dell’occupazione degli studenti che volle ricordare sulle pagine di questo giornale (Alias, 4/7/2021). Negli ultimi venti anni dalla sua casa di Calcata, dove si è spento, trascorreva il suo «vivere poetico» con sua moglie Giovanna Massobrio. Nella sua ricca biblioteca collocata in piccoli padiglioni distribuita tra il grande Parco e l’abitazione teorizzava la Geoarchitettura e si scoprì fotografo: architetto dallo sguardo sensibile rivolto alla natura sempre più dolente.