Visioni

Addio a Nicolas Roeg, regista visionario e randagio

Addio a Nicolas Roeg, regista visionario e randagioIl regista Nicolas Roeg in uno scatto anni '70

Cinema Morto a 90 anni il regista britannico che diresse David Bowie in «L’uomo che cadde sulla terra». Gli esordi nei sessanta come operatore al fianco di David Lean, Francois Truffaut e Roger Corman

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 25 novembre 2018

Un cineasta imprendibile, Nicholas Roeg – morto a 90 anni nella notte di venerdì, che a suo modo ha segnato il decennio degli anni Settanta con le sue visioni acide, psichedeliche, sfondando le porte della percezione di un cinema ancorato invece a certezze ideologiche, solide. Appartenente alla categoria dei britannici inclassificabili, apolidi eppure inestricabilmente intrecciati alla loro «britishness», ha dato corpo a un cinema elegantemente randagio e allucinato. Nato nel 1928, Roeg ha attraversato tutto lo spettro filmico possibile negli anni Settanta. Irrequieto, visionario, dotato di uno stile barocco eppure preciso, geometrico e intriso degli umori psichedelici del suo tempo, aveva uno straordinario senso del set che gli ha permesso, per esempio, di lavorare al fianco di David Lean come regista della seconda unità sia per Lawrence D’Arabia che per Il dottor Zivago.

NONOSTANTE il suo nome sia stato e sarà legato per sempre a un pugno di titoli che hanno colto lo spirito del tempo, Roeg è soprattutto un cineasta sperimentale, in grado di smarginare i perimetri dei generi, inseguendo le pulsioni insurrezionali di un cinema intimamente sintonizzato sulle inquietudini erotiche e politiche di un mondo che dopo essere stato folgorato sulla strada della swinging London si è svegliato alle soglie degli anni Ottanta. Il «walkabout», il viaggio nel cinema di Roeg lo ha portato a essere uno dei direttori della fotografia più «sintomatici» degli anni Settanta. Esemplare il lavoro svolto per La maschera della morte rossa di Roger Corman, dove i suoi cromatismi esplodono come in una danza di follia espressionista, oppure Fahrenheit 451 di François Truffaut, caratterizzata da colori freddi, desolati che colgono alla perfezione sia la temperatura politica e distopica del film che l’infelicità del regista nel realizzare un film che aveva smesso di sentire.

E POI ROEG sapeva filmare come nessuno le rockstar. Non è un caso che la copertina di Low di David Bowie sia un fotogramma di L’uomo che cadde sulla terra (1976), quintessenza del periodo Thin White Duke del musicista. Persino Mick Jagger, forse uno dei rocker più difficili da ritrarre, sarà ricordato soprattutto per come Roeg lo ha immortalato in Performance (1970), co-diretto con il sulfureo e luciferino Donald Cammell, che meriterebbe un capitolo a parte. Senza dimenticare, ovviamente, Art Garfunkel ne Il lenzuolo viola (1980) che si produce in una interpretazione degna di Conoscenza carnale.

EPPURE, al di là del colore dell’aneddotica, sono i film che hanno fatto di Roeg il regista più imprendibile di una generazione di britannici anarchici e irriducibili illuminata dal sole nero di Ken Russell. E nonostante la coda della sua carriera sia stata segnata da crisi mistiche (Oscuri presagi/Cold Heaven, 1991), anche in lavori contraddittori come La signora in bianco/Insignificance (1985) ed Eureka (1983) il suo sguardo sbilenco riusciva a mettere a segno momenti di cinema fuori asse, impossibile da catalogare. Certo, come dimostra Chi ha paura delle streghe?The Witches (1990), avrebbe potuto avere molto più successo di quel che ha raccolto se solo avesse saputo mediare e tenere a bada il suo gusto feroce per lo sberleffo e la crudeltà. Nicholas Roeg, pur filmandolo, non si fidava del mondo. Era convinto che le cose non fossero mai quel che sembravano. Don’t Look Now (ossia letteralmente, Non guardare ora) ma tradotto da noi come A Venezia un dicembre rosso shocking (1973), lo evidenzia benissimo: la realtà è un nastro che si avvolge su stesso e a prestare troppa attenzione alle apparizioni si rischia di perdere il senso delle cose. E Roeg sapeva filmare benissimo gli squarci che si aprivano nel tessuto del mondo e del reale. Il suo senso dell’orrore stava tutto in quelle fratture subitanee. In fondo era sempre una questione di Bad Timing…Sapeva anche ridere, o meglio ferire con il ghigno, Roeg. Basti pensare al segmento del film collettivo Aria (1987), dove il suo Un ballo in maschera salda il conto alla retorica dei film in costume. Questo maverick del cinema britannico è stato insignito nel 2011 del supremo onore di Commander of the Order of the British Empire mentre il suo stile, fatto di fratture e discontinuità, salti logici e fratture spazio-temporali, privato delle sue connotazioni politiche e filosofiche, è stato purtroppo dirottato dalla pubblicità. Steven Soderbergh è l’unico che ha saputo reinventarne lo sguardo.

CURIOSAMENTE il più europeo dei registi britannici se ne va mentre «la classe dirigente» tory consegna il paese alla Brexit. Tutto il cinema di Roeg non è stato altro che l’invito a non abbassare mai lo sguardo, anche quando il mondo sembrava fosse vittima (compiaciuta) della follia più incomprensibile. Roeg è stato un cineasta politico nelle forme e nel pensiero. Un vero rivoluzionario del cinema. Un artista che ha sempre pensato con(tro) le immagini tentando di vedere al di là, dentro il reticolo segreto dei materiali del reale. Ed è per questo motivo che ci mancherà: sapeva dubitare del mondo sbagliando volutamente un raccordo di montaggio. Sgambettando il nostro sguardo perché insofferente degli apologeti dell’esistente. Il cinema, in fondo, si fa proprio così.

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