Ci sono notizie che, anche se previste, ci si illude di non sentire mai: la morte di un grande artista è tra queste. Come se la grandezza potesse sostituire la naturale transitorietà di ogni vivente donandogli una sorta d’immaginaria immortalità. Accade alle opere, questo sì, ma non ai corpi. Maurizio Pollini è stato un personaggio complesso, poliedrico, che condivide con pochi altri interpreti, in modo netto, quasi violento, la prerogativa di avere cambiato persino la concezione stessa di interpretazione. C’è un prima e un dopo di lui. In cosa consistesse la sua specificità, questa sua innovazione nel modello interpretativo, sia di una musica del passato sia di una musica contemporanea, lo si capì subito. Già dalla vittoria del Concorso Chopin di Varsavia, nel 1960, dunque quando aveva 18 anni.

FU CHIAMATO, poco dopo, a suonare a Roma, per l’Istituzione Universitaria dei concerti, nell’Aula Magna, sotto il grande affresco di Mario Sironi. Allora non era facile afferrare il sottile flusso del pensiero che correva tra l’affresco e le musiche suonate da Pollini, quel reinterpretare il passato con l’orecchio dell’oggi. Contrariamente alle attese, in programma non c’era Chopin, ma un percorso tutto incentrato sulla tradizione tedesca: la Fantasia cromatica e fuga in re minore di Bach, la Fantasia in do Minore K. 475 seguita dalla Sonata in do minore K. 457 di Mozart, e nella seconda parte della serata la Sonata op. 106 “Hammerklavier” di Beethoven. Com’era già successo a Londra, fu proprio la sonata beethoveniana a scatenare il dissenso dei critici.

M. Pollini con C. Abbado e L. Nono nel 1974, foto di Erio Piccagliani

Chi ricorda solo l’encomio, quasi inneggiante, con cui negli anni seguenti è stato accolto ogni concerto di Pollini, non può sapere quale fu l’acredine di quelle critiche: erano rivolte a una nuova idea di filologia musicale, proprio negli stessi anni in cui si cominciava a riflettere su come interpretare più correttamente la musica antica. Chi in seguito esaltò la «perfezione» di Pollini – mentre dissentiva dalle sue posizioni politiche, ignorando che anch’esse ubbidivano allo stesso criterio analitico delle interpretazioni musicali – non può comprendere quel livore. Si scrisse che quella di Pollini era stata una lettura folle di Beethoven, mentre il pianista aveva semplicemente seguito le indicazioni di metronomo scritte sullo spartito, attaccando il primo tempo della sonata a una velocità ritenuta, allora, inammissibile (la minima a 138). Si scrisse che Beethoven conosceva male la matematica e che quindi le sue indicazioni di metronomo sono sbagliate. Ma il punto, come Pollini aveva ben capito, non stava nell’esattezza o meno di un metronomo, ma nella concitazione che il compositore chiedeva all’interprete. Le critiche si affievolirono via via e finirono nel nulla, mentre l’esempio di Pollini si affermò e fece scuola. Ma nuove forme di dissenso, sebbene di diverso stampo, sarebbero state pronte a manifestarsi: quando Pollini a una pagina classica o romantica ne accostava una ancora quasi fresca d’inchiostro, o che così veniva percepita. La specificità delle sue letture, una romantica e l’altra legata all’avanguardia

PIÙ CHE dalla critica, informata e quasi sempre, ormai, osannante, le critiche venivano dal pubblico. Ricordo un concerto dell’Accademia Filarmonica Romana, in cui varie persone reagirono indignate, quando Pollini attaccò, dopo un travolgente Chopin, la Seconda Sonata di Pierre Boulez. Erano gli anni ’70 del secolo scorso, e la sonata era datata 1948, era quindi passato quasi un quarto di secolo. Fin da subito si rese chiaro quale fosse per Pollini il senso della musica.
Due pagine comunicano, come poche altre, la specificità della sua lettura: una romantica e l’altra un capolavoro dell’avanguardia musicale. Nella Sonata in la maggiore D. 959 di Schubert, e nell’Andantino, in particolare, la melodia è di una desolazione senza speranza. È ripetuta rafforzata da un raddoppio d’ottava. C’è poi un episodio intermedio tumultuoso, allucinato. E quando la melodia ritorna vi s’inserisce un motivo lamentoso che la disturba. Pollini intonava la melodia con una limpidezza quasi glaciale, poi scatenava l’inferno con le tempestose scale della sezione intermedia. Al ritorno della melodia la cantabilità si fa trattenuta, sommessa, come a trasmettere una rinuncia, una sconfitta. La sonata di Boulez dice quasi la stessa cosa, ma con uno stile diverso, alienato. La forma resta però quella di una sonata. Romanticismo e avanguardia dicono entrambe l’inadeguatezza della musica a raccontare l’infelicità. Eppure la raccontano come nessun’altra forma potrebbe.

LA PIGNOLERIA di Pollini nel tornare alla scrittura originaria, la sua ricerca di una sempre più accurata sicurezza tecnica non intendevano sigillare la musica nella cornice rassicurante di una teca museale, che chiuda le opere del passato in una bolla respingente le aberrazioni musicali del presente. Come la poesia, la musica non era per Pollini consolatoria dei dolori della vita: era chiaro, da come suonava, quanto sentisse nella melodia, nelle armonie dei romantici il canto, il grido che dice il dolore. La sua lezione ha portato ai pianisti venuti dopo di lui la consuetudine di affondare nella struttura della composizione, modificando così anche la prassi dell’ascolto, in modo da renderci possibile la ricostruzione mentale del pensiero che ha dato forma a quella musica. Perché come Pollini aveva compreso fin da ragazzo, la forma – nell’arte – è lo strumento privilegiato con cui organizzare il nostro senso del mondo: nella struttura della musica sta la sua ratio, il suo tramite per rendersi comprensibile, così come per dare una logica all’irrazionale. Forma sonata, fuga, endecasillabo, nudo d’artista, sono la scelta della via per passare da una immagine mentale a un’opera concreta: «Si è artisti – scriveva Nietzsche – solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto, come ’la cosa stessa’. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita».
La camera ardente si terrà presso il foyer del Teatro alla Scala dalle ore 10 alle ore 14 di martedì 26 marzo.