Ha fatto in tempo a pubblicare il suo romanzo thriller, «Il Viminale esploderà», qualche settimana fa, in cui si è divertito a giocare con un giovane ministro dell’Interno, di nome Roberto e di cognome Macchi, come sua moglie Emilia. Ieri mattina Roberto Maroni se n’è andato a 67 anni, nella sua casa di Lozza (Varese) dopo una malattia che lo aveva colpito all’improvviso, a inizio 2021, con un malore cui era seguito un intervento chirurgico al cervello e le cure, seguite con disciplina, fino alla fine.

Maroni è stato ministro dell’Interno dal 1994 al ’96, e poi di nuovo dal 2008 al 2011. Fu lui a inaugurare i respingimenti in mare, nel 2009 arrivò una condanna della Corte di Strasburgo per aver riportato a Tripoli 200 migranti contro la loro volontà. Tra il 2001 e il 2006 la guida del ministero del Lavoro, segnata dalla tragica vicenda di Marco Biagi, che lui aveva voluto come consulente e che tentò di proteggere.

La sua parabola politica si è intrecciata in modo indissolubile col Cavaliere e soprattutto con Umberto Bossi, che lo volle al suo fianco fin dalle origini della Lega lombarda, quando Bobo bazzicava intorno a Dp e leggeva il manifesto. «Ma lo nascondevo nella Gazzetta per non farmi picchiare dai fascisti..».

Insieme per una vita, fino alla notte delle scope dell’aprile 2012, al Palasport di Bergamo, quando l’eterno secondo celebrò la fine politica del Capo con la scopa in mano: lui sorridente qualche passo a lato del leggio, il Senatur a chiedere scusa per gli scandali finanziari, e le spese pazze dei figli, e la folla chiedeva il rogo della «strega» Rosi Mauro, che dopo la malattia del 2004 era nei fatti la vice di Bossi, a capo del «cerchio magico». Mauro poi fu assolta da ogni accusa.

Bobo e Umberto, una storia di amicizia e politica che si chiude con la fine prematura del più giovane, mentre il vecchio ancora lotta con l’ennesimo ricovero, e non potrà salutarlo. Nel 1994 la prima vera lite, quando il Senatur decide di far cadere Berlusconi, e Bobo non vuole e arriva quasi fino a farsi espellere, salvo poi essere pubblicamente perdonato. Erano i mesi in cui il Capo era andato a trattare in canottiera a villa Certosa, non si era lasciato tentare dal lusso del Cavaliere e aveva accusato il suo secondo di aver ceduto alle lusinghe: «Gli ha fatto vedere l’aereo privato..».

La pace arriva a fine anni Novanta, la fase secessionista li vede legati come agli esordi, Maroni si ferisce durante gli scontri con la polizia in via Bellerio durante una perquisizione. Tenta di mordere un poliziotto che cercava documenti sulla guardia nazionale padana, una delle tante invenzioni di quei tempi, al confine tra folklore e minacce di insurrezione.

Nel 2011 i ruoli si invertono: davanti alla crisi del Cavaliere, Maroni pensa di essere l’uomo giusto per un cambio della guardia a palazzo Chigi, fa asse con Alfano, si prende i gruppi parlamentari e arriva fino a far votare i deputati a favore dell’arresto di Alfonso Papa, deputato berlusconiano, nonostante le rassicurazioni che Bossi aveva offerto al premier: «Voteremo no». Pochi giorni prima a Pontida 2011 era comparso sul pratone uno striscione: «Maroni presidente del consiglio», un  sacrilegio nel giorno del sacro comizio del Senatur.

Nasce qui la corrente dei «barbari sognanti», dalla citazione che Maroni fece del poeta irredentista triestino Scipio Slapater. Da quel giorno i suoi indossano braccialetti verdi con la scritta, la corrente si fa sempre più agguerrita con l’obiettivo di prendersi la Lega. Lo scandalo del 2012 che travolte il tesoriere Belsito, i soldi pubblici dirottati alla «family» Bossi, gli acquisti di diamanti in Tanzania con i rimborsi elettorali. Maroni cavalca la rabbia dei militanti e nel luglio 2012 al congresso di Assago si prende il partito. Bossi resta, ma è convinto che dietro gli scandali e le fughe di notizie ci sia il rivale.

Dopo tanto penare, la segreteria di Bobo dura lo spazio di un mattino: pochi mesi dopo, a febbraio 2013, viene eletto governatore della Lombardia dopo le dimissioni di Formigoni. Terrà il doppio ruolo fino a dicembre, ma dedicandosi quasi solo alla regione, tra i mugugni dei suoi barbari. «Prima il Nord», lo slogan della sua gestione, molto sindacato del nord, poco incisiva nella politiva nazionale. Nello stesso giorno si vota per le politiche, la Lega si ferma al 4%, parte la ricerca di un successore.

Maroni si trova a mediare tra il ruspante Salvini e un altro fedelissimo, il sindaco di Verona Flavio Tosi. Siglano un patto: Salvini segretario, Tosi candidato premier. Tra i maroniani molti spingono Giorgetti, alla fine l’unico a candidarsi contro Salvini sarà Bossi. Nasce la Lega nazionalista, il delfino si tramuta in un Le Pen all’italiana, Bossi e Maroni vedono tramontare, mese dopo mese, la Lega Nord, fino all’invenzione della «Lega Salvini premier».

Nel 2018 a sorpresa rinuncia alla guida delle Lombardia, e indica il fedelissimo Attilio Fontana, per anni sindaco di Varese. Un’altra rinuncia a sorpresa. «Lui è un aquilone che sta lontano da chi ha in mano il filo», la sintesi di Bossi per descrivere questa strano rapporto con il potere. Per Maroni è la fine della politica attiva, restano i viaggi a vela, e la musica soul. Nel 94 suonò con la sua band «Distretto 51 and the Capric Horns» al Porretta soul festival mentre era ministro dell’Interno. «Meglio un ministro musicista che uno ladrone», la frase che consegnò ai cronisti, in piena era post Tangentopoli.

Negli ultimi mesi le dure critiche a Salvini, acuite dopo il crollo delle politiche, l’invocazione di Zaia come nuovo leader, lui e Umberto si ritrovano nell’idea che «bisogna tornare a occuparsi del nord». Ieri cordoglio bipartisan, per l’uomo prima che per il politico.