La scomparsa di Marcello Colasurdo – morto ieri a 68 anni – segna davvero la fine di un’epoca: un’epoca che ha visto, schiacciati in quattro decenni, la scoperta e la rivalutazione di una musica e di una cultura popolare prima ignorate o marginalizzate, il loro clamoroso successo, l’inevitabile rifluire del fenomeno in una società ormai protesa verso altre direzioni e l’inevitabile corollario di mitizzazione dei protagonisti di quella che è stata, comunque, una pagina importante della cultura meridionale del dopoguerra. E tutto questo in un difficile e sofferto rapporto con processi di modernizzazione, lotte operaie e rischi di scivolamento nel più deleterio folklore, quando chi se ne occupava si sentiva parte di un’Italia «altra» che nelle culture tradizionali cercava momenti di solidarietà, di festa, di liberazione.

COLASURDO nasce per caso a Campobasso ma, fin da bambino, si trova dentro quella traumatica mutazione antropologica che trasforma in pochi anni il territorio agricolo di Pomigliano D’Arco in una zona industriale con l’installazione dell’Alfa Sud, che nel 1968 si affianca ai meno «ingombranti» stabilimenti dell’Alfa Romeo (1939) e dell’Aerfer (1949) entrambi dedicati alla produzione aeronautica. Una mutazione traumatica perché l’Alfasud era una fabbrica di automobili che ospitava una folla di operai-massa, insofferenti e difficili da disciplinare, provenienti quasi sempre da lavori agricoli e che andavano a sostituirsi a quelle «aristocrazie operaie» dell’epoca precedente, con la loro compostezza e la loro ferrea etica del lavoro. Ed è proprio l’innesto di un «pezzo» di campagna negli infernali ritmi fordisti dell’Alfasud a stimolare una reazione poggiante sulla solida base di una tradizione popolare riportata alla luce grazie al successo della Nuova Compagnia di Canto Popolare: nel 1974 nasce infatti il Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco ‘E Zezi, un collettivo di operai, disoccupati, intellettuali, pronti a dare il proprio contributo alle lotte sindacali ma, anche, a rivendicare un uso della tradizione che fosse interna alla nuova realtà industriale e non di mera memoria del mondo premoderno, come per la NCCP.

I Zezi cominciano ad operare sul territorio, non solo nelle manifestazioni di piazza, portando le loro esuberanti «tammurriate», ma anche nei paesi dell’entroterra, recuperando e riproponendo pezzi del teatro popolare come la Canzone di Zeza e la Rappresentazione dei dodici mesi, ottenendo così il duplice scopo di risvegliare e rivitalizzare luoghi che subivano la pressione di una cultura di massa sempre più pervasiva e alienante e fornire ai membri del gruppo (che ha visto negli anni la partecipazione di decine e decine di persone) un’attività creativa che non fosse lo scialbo dopolavoro aziendale. Nei Zezi, Marcello è fin da subito al centro della scena. Di enorme corporatura, dotato di una voce molto particolare che si affinerà sempre più nel tempo, e soprattutto di un’incredibile memoria sonora e visiva, è lui il depositario della tradizione: «voci», proverbi, strofette rituali e poi gesti, atteggiamenti espressivi, abilità coreutiche e teatrali maturate anche per la sua costante presenza alle feste popolari campane dove viene riconosciuto come una sorta di guru.

Marcello Colasurdo
Sono testimone delle trasformazioni: dai ritmi della terra alla catena di montaggio. Ma è sempre meglio ‘na tammurriata, ca ‘na guerra…

NEL 1976, in pieno folk revival, il Gruppo Operaio incide un primo album: Tammurriata dell’Alfasud per I Dischi del Sole. Le canzoni sono per lo più tammurriate, vale a dire lunghi canti contadini ritmati su un grande tamburo a sonagli, calati però nell’universo di una fabbrica che appare come un Moloch, un tritacarne umano, e che sfruttano immagini mitico-rituali della tradizione popolare convertendole in contenuti attuali. Ci vorranno ben diciotto anni per un nuovo disco, grazie anche al rinnovato interesse che si ebbe per le musiche popolari negli anni ‘90: nel decennio precedente, infatti, mentre l’Alfasud veniva svenduta alla Fiat e la tensione politica calava, il Gruppo Operaio si dedicava soprattutto all’attività teatrale, per lo più lontano dalle ribalte nazionali, con spettacoli portati sulle piazze della sterminata provincia campana. Marcello, intanto, era stato notato e, nel 1986, aveva lavorato con Federico Fellini nel film L’intervista.

Aucielllo ro mio posa ‘e sorde, che esce nel 1994 per la Tide Records, è un disco bellissimo e trova Colasurdo nella sua piena maturità: è da questo momento, soprattutto, che comincia per lui il volo verso la fama. Sono gli anni della rinascita della canzone impegnata (anche se in forma di rap), complice la discesa di Berlusconi in politica e la necessità di un’opposizione intransigente, e la nascita del circuito alternativo dei Centri Sociali Occupati. Auciello ro mio posa ‘e sorde ha successo e il Gruppo Operaio suona in Italia e all’estero, soprattutto in Francia dove l’accoglienza è trionfale.

SUBITO DOPO, però, Marcello, insofferente, esce dai Zezi e si mette in proprio e continua la sua attività. Nel 2000 aderisce a Spaccanapoli, l’ultima delle innumerevoli scissioni che i Zezi hanno subito nel tempo: con il cd Lost Soul Aneme Perze, pubblicato dalla Real World di Peter Gabriel, Colasurdo raggiunge notorietà planetaria soprattutto attraverso il circuito dei Womad, i festival di musica etnica promossi dallo stesso musicista inglese. Poi, negli ultimi anni, una lunga e triste malattia che chiude il sipario su un profilo di artista che sarà praticamente impossibile ritrovare, essendo sparite, del tutto e per sempre, le coordinate esistenziali nelle quali si era formato.

I funerali di Marcello Colasurdo si terranno oggi, 6 luglio, alle 16 nella Chiesa di San Felice in Pomigliano d’Arco