Addio a Luigi Cogodi, al suo sardismo gentile e non isolazionista
Anche noi che a lungo l’abbiamo conosciuto potremmo dire di lui «tu Luigi sei stato molto più di un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti». Perché per Luigi […]
Anche noi che a lungo l’abbiamo conosciuto potremmo dire di lui «tu Luigi sei stato molto più di un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti». Perché per Luigi […]
Anche noi che a lungo l’abbiamo conosciuto potremmo dire di lui «tu Luigi sei stato molto più di un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti». Perché per Luigi Cogodi, che ieri ci ha lasciato in una stagione ancora fertile di vita e di pensiero, è proprio la sua isola la chiave che ci apre le porte di una personalità forte e gentile, strutturata al punto da fare dell’intreccio tra cultura e politica il tratto di un’identità della sinistra che, con figure come la sua, un tempo è stata. E con quell’intreccio, con quello snodo, dovrà fare instancabilmente i conti se la sinistra vorrà avere un domani.
La Sardegna allora come l’infanzia politica di un uomo. Non parlo, pensando a Luigi, di un’infanzia semplicemente autobiografica, pur così determinante, se non decisiva, nella formazione di una personalità politica compiuta, come è poi diventata la sua. Parlo di infanzia della politica come cultura del mondo, del proprio tempo, appunto, e come pratica fondativa del suo statuto di valori morali e umani, di comportamenti e di relazioni. Luigi conosceva troppo bene il pensiero di Gramsci e di Lussu, passaggi cruciali permanenti della sua formazione, per non sapere che la critica della società sarda, in lui così precoce e viva, portava dritta alla critica dell’intera società italiana. È pur sempre il grande e inconcluso capitolo della «questione meridionale» quello che più di ogni altro segna il percorso di Luigi. Ed è un caleidoscopio che rifrange il senso della politica come questione sociale dell’Italia, come costruzione dello Stato, come terreno di lotta e di direzione, diciamo pure di egemonia, della sinistra. Da Gramsci e da Lussu ha imparato come la «questione meridionale» sia, proprio perché complessa, anche ricca e densa di specificità e come tocchi alla politica di una sinistra matura operare le necessarie distinzioni. Tra Sardegna e Sicilia, ad esempio, e tra queste e il Mezzogiorno continentale. È questa distinzione che lo porterà ad acquisire un’idea di «sardismo» che chiude ogni possibile ritorno alla strada sempre così battuta dell’isolazionismo, del separatismo, dell’indipendenza statuale, per saldare la sua «sardità» con l’idea e la visione di uno Stato nazionale non centralistico, facendo dell’autonomia la leva dell’autogoverno. L’autonomismo della sua terra, della sua isola, è il risvolto democratico, partecipativo, federativo, di uno Stato pluralistico nazionale che, se diviene tale, afferma pienamente la soggettività culturale e storica della Sardegna, come delle altre costellazioni del Mezzogiorno del Paese.
In fondo, se guardo alla sua azione di amministratore sardo, come a quella di parlamentare nazionale, scorgo il filo di una continuità di pensiero e di azione che lega il lavoro al territorio, i diritti della persona alla lotta alla speculazione e alla corruzione. E scorgo il tratto di un animo gentile e colto, che ha fatto di ogni nostra frequentazione nella comune militanza politica un momento per me di arricchimento, politico e umano al tempo stesso. Qualcosa di antico, e qualcosa di raro, se penso all’oggi. Ma proprio per questo, qualcosa di moderno, nel senso di quel bisogno di custodia e di trasmissione, dentro il cambiamento, di valori e di comportamenti, di stili esistenziali e di cultura politica che segnano la qualità della politica che vogliamo. Il dolore è la perdita di un amico, di un compagno, di un uomo speciale.
Il rammarico è quello che sarebbe potuto diventare l’Italia, e la Sardegna, se figure come quelle di Luigi Cogodi fossero state classe dirigente maggioritaria del nostro Paese.
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