Cultura

Addio a Franco Ferrarotti interprete delle trasformazioni

Addio a Franco Ferrarotti interprete delle trasformazioniFranco Ferrarotti, foto Ansa

L'avvenimento Scompare a 98 anni l’intellettuale tra i padri della sociologia italiana. Svolse studi pionieristici sulle periferie, i movimenti sociali, i cambiamenti nel mondo del lavoro. Seppe leggere anzitempo il nuovo volto del Paese che indagò senza sosta in decine di opere. Il lungo sodalizio con Adriano Olivetti. L’esperienza da parlamentare. La collaborazione per oltre un decennio con il manifesto

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 14 novembre 2024

In una delle sue opere più celebri, più volte ristampata (Roma da capitale a periferia) Franco Ferrarotti sottolineava come tra i giovani sottoproletari dei «borghetti» romani albergasse un sinistro desiderio di emulazione nei confronti dei giovani fascisti dei «quartieri bene» della città.

ERA IL 1970 e questa semplice considerazione, che all’epoca non tutti capirono, attestava già le notevoli capacità di lettura dell’universo complesso della società italiana che avrebbero contraddistinto l’intero percorso di colui che non a caso è stato definito come «il padre della sociologia italiana», Franco Ferrarotti.

Piemontese di nascita, era nato a Palazzolo Vercellese il 7 aprile del 1926, ma a Roma fin dagli anni Sessanta, Ferrarotti è scomparso ieri nella capitale a 98 anni. Professore di sociologia alla Sapienza fino al 2002, dopo aver insegnato anche negli atenei di Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca, Varsavia, Colonia, Tokyo e Gerusalemme, fu deputato indipendente nel Parlamento durante la terza legislatura (1959-63) in rappresentanza del Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti, di cui era stato uno dei più stretti collaboratori e di cui prese il posto dopo le sue dimissioni dalla Camera.

IL SOCIOLOGO, che collaborò anche con il manifesto per oltre un decennio, fu fra i fondatori del Consiglio dei Comuni d’Europa a Ginevra nel 1949; responsabile dei progetti di ricerca sociologica presso l’Oece (ora Ocse) a Parigi nel 1958-59, direttore di studi alla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi nel 1978.

Laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1949, Ferrarotti ottenne la cattedra di sociologia dopo aver vinto il primo concorso bandito in Italia per questa disciplina. Nel 1962 contribuì alla creazione della Facoltà di sociologia dell’Università di Trento, dove ha poi avuto la sua seconda cattedra di sociologia. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta condusse una serie di ricerche pionieristiche sul sindacalismo, sui movimenti sociali, la trasformazione del lavoro, le comunità locali e la sociologia urbana, interessandosi particolarmente ai fondamenti di legittimazione del potere in una società in trasformazione come quella moderna e studiando il problema dei fini e dell’orientamento culturale di fondo della società industriale.

L’ATTIVITÀ DI RICERCA e di studio di Ferrarotti è contenuta in una vasta mole di scritti che ha continuato a pubblicare fin oltre i 90 anni. Fra le sue opere principali, Sindacati e potere (1954); La protesta operaia (1955); La sociologia come partecipazione (1961); Max Weber e il destino della ragione (1965); Trattato di sociologia (1968); Roma da capitale a periferia (1970); La sociologia del potere (1972); Vite di baraccati (1974); Studenti, scuola, sistema (1976); Giovani e droga (1977), fu anche, con Nicola Abbagnano, fondatore dei Quaderni di sociologia. Mentre il 22 novembre uscirà il suo volume, Lettera ad un giovane sociologo.

Nel libro, Ferrarotti afferma che questa disciplina è «vittima del suo successo. Si è proposta come facile rimedio per studiosi sfortunati in altri campi. Nei casi migliori è divenuta giornalismo investigativo. In ogni caso, tende a perdere la visione d’insieme del sociale e la capacità di interconnettere in modo creativo i suoi vari aspetti. I sociologi odierni, probabilmente sotto la pressione del mercato, hanno perso l’ancoraggio con le basi filosofiche da cui è nata la loro disciplina, non hanno tempo per riflettere sui loro testi classici, non sembrano avere interesse per costruire una tradizione sociologica in senso proprio. Per queste ragioni è plausibile che sfugga un aspetto essenziale: nella natura ibrida della sociologia non risiede il limite, ma il primato di questa disciplina, la cui ottica è in grado di ‘afferrare’ il reciproco condizionamento dei vari aspetti del sociale».

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