Adam Birnbaum, «il Covid non è la fine del grande schermo»
Intervista Parla il direttore della programmazione dell’Avon Theatre e rappresentante di 45 sale arthouse in tutti gli Stati Uniti
Intervista Parla il direttore della programmazione dell’Avon Theatre e rappresentante di 45 sale arthouse in tutti gli Stati Uniti
Se i titoli di testa sulle pubblicazioni di settore danno più spazio alla pericolante situazione dei multiplex e alle implicazioni che bancarotte o chiusure definitive delle grosse catene potrebbero avere sul futuro della visione in sala il dibattito sul futuro dell’«andare al cinema» è strettamente legato alla sale indipendenti. Anzi, alcuni credono che stia in gran parte proprio lì. Direttore della programmazione dell’Avon Theatre Film Center, un elegante cinema art déco nel cuore di Stamford, in Connecticut, restaurato e riaperto nel 2003, Adam Birnbaum rappresenta anche circa quarantacinque sale arthouse qua e là negli States. Il suo lavoro, in quanto booker, quello di facilitare gli ingaggi dei film facendo da ponte sia con le Major che con i piccoli distributori indipendenti. Lo abbiamo intervistato.
La morte delle sale cinematografiche è stata decretata più volte. Il Covid è considerato da molti l’ultimo chiodo che sigillerà la bara, specialmente dopo l’annuncio della chiusura temporanea delle multisale del circuito Regal e la bancarotta di quello Amc nell’aria. Sei d’accordo?
No, credo invece che l’andare al cinema sarà senz’altro parte della nostra cultura post-Covid. Nonostante il virus abbia funzionato da catalizzatore di chiusure e possibili bancarotte non penso che questa sia una fine. Anzi, guardandoci indietro, forse un giorno potremo dire che il Covid e stato il cigno nero che ha facilitato un riproporzionamento dell’esercizio che sarebbe dovuto accadere più organicamente nell’arco degli ultimi dieci, quindici anni. La consolidazione e la monopolizzazione dell’universo dei multiplex, con 3 o 4 delle grandi catene che sono arrivate a possedere una fetta abnorme delle sale, il passaggio dal 35mm al digitale e la minaccia costante di una monocultura sempre più omogeneizzata hanno costituito una grossa sfida per le sale arthouse di questo paese. L’idealista in me spera che la possibile bancarotta di alcune catene o almeno la chiusura di alcuni dei loro cinema ci porti a una situazione di maggiore uguaglianza. E, se non possiamo fermare del tutto lo slittamento verso quella monocultura a cui mi riferivo sopra, possiamo forse sperare che le sale arthouse vengano a trovarsi in una posizione più forte per potersi assicurare alcuni di quei titoli di appeal allargato che spesso oggi sono esclusiva dei multiplex e che sono un complemento necessario al metabolismo delle sale indipendenti perché queste possano continuare a lavorare sulla scoperta del vero cinema, in cui sta la loro identità e la loro ragione di essere.
Rappresenti un grosso numero di sale sparse un po’ in tutta l’America. Come stanno sopravvivendo?
Dall’inizio dello shutdown è stata una strada molto dura. Alcune sale hanno cominciato a programmare cinema virtuale per incassare qualcosa o almeno mantenere attivo il rapporto con gli spettatori. Altre hanno tenuto occupato il loro pubblico organizzando incontri online con attori, registi a seguito di proiezioni. Altri hanno approfittato dell’estate per inventare programmi all’aperto o drive in. E molte hanno dato il via a campagne di fundraising e cercato sovvenzioni del governo.
Quale era lo stato di salute di queste sale prima del Covid?
Non si trattava di un panorama uniforme. Per ogni sala che prosperava ce n’era una che stentava ad andare aventi. Probabilmente quello che sta succedendo darà il colpo di grazia alle situazioni più fragili, ma secondo me ci sono i presupporti perché chi era in una condizione di salute esca da quest’esperienza rinvigorito. Prima della chiusura c’erano segnali veramente positivi -molti cinema indipendenti stavano raggiungendo un livello di successo senza precedenti, magari coadiuvando la programmazione dei film con presentazioni, e incontri con pubblico, o – specialmente per le sale lontano dalla grandi città- integrando nel palinsesto programmi da altre discipline artistiche come le dirette dalla Metropolitan Opera, il National Theater; oppure accentuando la propria fisionomia attraverso una programmazione originale, e di retrospettive, in parallelo a quella di prima visione che costituisce la parte forte degli incassi. Il 2019, cominciato con gli importanti risultati al botteghino di Cold War e conclusosi con il successo artistico e commerciale di Parasite, siglato dall’Oscar, è stato un anno molto importante. Per un attimo – prima della pandemia – il pubblico americano è sembrato nuovamente aperto al cinema straniero come non succedeva da parecchi anni- il che è una dimostrazione che il modello arthouse ha in sé – o almeno aveva fino al virus – vitalità e futuro.
Credi che il pubblico sia pronto a ritornare?
Come si evince dal botteghino molto striminzito, no. Ma credo che più persone andrebbero al cinema se la proposta nella sale fosse migliore. Se adesso il business è in declino dell’85-90%, con un influsso di prodotto migliore potremmo forse salire al 50-60%. Perché i film sono una parte importante del ricostruire la fiducia del pubblico. Tra l’altro non mi sembra che ci sano stati casi di Covid fatti risalire a sale cinematografiche.
Universal e Disney, in particolare, si stanno muovendo molto aggressivamente dalla sala alla piattaforma streaming. Adesso sembra andare in quella direzione anche la Warner. Pensi che sia una tendenza che si può invertire?
Immagino che, per quanto riguarda gli Studios, quel trend sia destinato a continuare, ma anche che non smetterà di esistere un tipo di prodotto che ha bisogno del grande schermo, magari con una finestra ridotta rispetto all’uscita in streaming. I blockbuster, per esempio, non potrebbero mai arrivare ai massimizzare i loro profitti solo con l’uscita in piattaforma. Immagino quindi una finestra ridotta e, in alcuni casi un’uscita simultanea. Che tra l’altro è una situazione già abbastanza frequente nel circuito dell’arthouse. E alcuni film andranno direttamente in streaming. Ma non è quello che si è verificato prima con il Vhs e poi con il Dvd negli scorsi 30/40 anni?
Durante una recente apparizione con Steven Spielberg alla Usc, George Lucas ha dichiarato: «Ci saranno meno cinema, più grandi con dentro molte amenità. Andare al cinema costerà 50,100 magari 150 dollari. Come gli eventi sportivi». Sei d’accordo?
Non mi aspetterei nulla di diverso da Lucas e Spielberg, due registi a cui va parte della responsabilità dello spostamento del mercato in direzione delle multisale. Pur essendo d’accordo sul fatto che in futuro avremo meno sale con «più amenità» – se per amenità intendi un sedile extra large e reclinabile da cui inalare il tuo hamburger, la birra e le patitine fritte – non vedo un futuro in cui lo spettatore medio spende 50, 100 o 150 dollari per andare al cinema. Per quanto il biglietto possa aumentare. L’ironia è che secondo questo business model, il film diventa la parte secondaria dell’entertainment. In questo panorama vedo anche lo spazio per una controtendenza a favore dell’esistenza di una forma pura dell’andare al cinema per chi lo ama in quanto forma d’arte.
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