Quella che racconta la regista Kira Kovalenko è una storia dura in un paesaggio umano e naturale durissimo. Incontriamo la protagonista di Unclenching The Fists (alla lettera, aprire i pugni) nella prima inquadratura. Ada, questo è il nome dell’eroina del film – e il titolo nella versione italiana – interpretata con grande giustezza dall’attrice Milana Aguzanova, ha il viso mezzo nascosto sotto il pullover e lo sguardo vispo d’un personaggio della letteratura verista: un ragazzo di vita o un rosso malpelo. Sul ciglio di una strada polverosa, ha l’aria di aspettare qualcuno che ha poche chance di arrivare. Due suoi coetanei vengono a disturbarla. Il primo insiste per farla salire sul suo camioncino, il secondo è suo fratello minore Dakko (Khetag Bibilov), che si muove e agisce come un cagnolino.

A QUESTI due uomini se ne aggiungono rapidamente altri. Un padre padrone (Alik Karaev) barbuto e scorbutico. Degli amici di famiglia. E infine delle bande di giovinastri che ammazzano il tempo facendo esplodere molotov contro un muro o organizzando dei tristi rodei di automobili. Polvere che si aggiunge alla polvere. Sembra che Ada sia la sola ragazza di tutta la città di Mizur, un agglomerato composto da una strada unica che congiunge una miniera a delle case fatiscenti. Una pressione sociale asfissiante si esercita di continuo su Ada; pressione che si esprime fisicamente, sul corpo stesso della ragazza.

Il destino della maggior parte delle ragazze in queste zone del Caucaso è deciso dagli uomini. Come ha lei stessa raccontato alla stampa, il caso della regista, Kira Kovalenko, nata anche lei come Ada, in Ossezia è un’eccezione. Diplomata in una scuola di design, Kovalenko si è potuta iscrivere all’università Kabardino-Balkarian. Qui, è riuscita ad entrare a far parte dell’atelier che il regista Aleksander Sokourov ha animato su invito del presidente dell’università. Da quel laboratorio di cinque anni è uscito un gruppo di cineasti che in questi ultimi anni si è rapidamente imposto sulla scena internazionale con dei film sul Caucaso, tra questi Aleksander Zolotukhin, Vladimir Bitokov e Kantemir Balagov. Di quest’ultimo, il lettore ricorderà Tesnota, («il manifesto», 1 agosto 2019) che per tema e per trattamento ha più di un punto in comune con la storia di Ada e con il contesto storico in cui si svolge.

Ada è una ragazza doppiamente martoriata. Da giovane è stata vittima di un attacco terroristico. Si è salvata, ma sul suo corpo restano diverse cicatrici e soprattutto un handicap che la rende vulnerabile, perché su di esso può esercitarsi il potere dei maschi che sono intorno a lei, in particolare il padre e i fratelli. Questa vicenda, tanto drammatica da apparire a prima vista manichea, è invece il principio di un film che esplora tutte l’ambiguità delle relazioni familiari, nelle quali il potere, l’oppressione, il possesso sono indistinguibili da certe forme di affetto reciproco. All’interno di questo laboratorio di emozioni, Kovalenko riesce a far raccontare un personaggio la cui forza illumina anche quelli che le stanno intorno. L’idea più forte del film è senza dubbio quella di fare di Ada la sola figura femminile della piccola società di Mizur. Femminilità repressa e negata in ogni modo, ma che infine si fa strada, caparbia e orgogliosa, come un fiore che sboccia attraverso gli interstizi del catrame.

Ada è il secondo lungometraggio di Kira Kovalenko, ha vinto meritatamente il premio Un Certain regard al festival di Cannes nel 2021. Al momento della prima mondiale, Kovalenko ha dichiarato che con questo film ha voluto parlare del proprio paese. Può sembrare una dichiarazione ironica, tanto l’immagine che il film dà di questa regione contestata tra la Federazione Russa e la Georgia è limitata all’orizzonte opprimente della città mineraria.

PER CAPIRE come invece non vi sia alcun cinismo nella sua dichiarazione, bisogna andare in fondo al film. La regista ha ringraziato anche i suoi attori – tutti non professionisti tranne il padre e la figlia, presi dalla strada – come si dice. E ha voluto anche ringraziare il suo vecchio maestro di cinema, Aleksander Sokourov che più che la maniera di girare le ha piuttosto trasmesso una morale fondamentale: l’arte ha un fine metafisico, serve a dare dignità all’essere umano.